Ascoltare un disco degli Sparks, a distanza di quasi cinquant’anni dai loro primi esperimenti musical-dadaisti, non è poi così diverso dall’osservare un ippopotamo allo zoo. Entrambi mastodontici, bizzarri, buffi ma, allo stesso tempo, talmente «impressionanti» da lasciare un segno in grado di imprimersi nell’immaginario e nel tempo. Questa suggestione è chiaramente figlia del titolo del nuovo album del duo americano, Hippopotamus per l’appunto, uscito da circa un mese, dopo un silenzio di quasi otto anni dalla deludente pop opera The Seduction of Ingmar Bergman, fatta eccezione per il progetto FFS insieme ai Franz Ferdinand nel 2015. Coltissimi, provocanti, rappresentanti/osservatori compiaciuti di un decadentismo che non teme il cubismo sfrenato, i fratelli Russell e Ron Mael (rispettivamente voce e tastiere) hanno conosciuto fortune e cadute, Tony Visconti e Giorgio Moroder, metamorfosi e ambiguità che nei decenni li ha resi un piccolo cult.

Il duo, scoperto dal sempre fondamentale Todd Rundgren ed esplosi nei primi anni ’70 grazie al fenomeno glitter in Inghilterra, ancora oggi non si stanca di decomporre, letteralmente, strutture rock per ricomporle a piacimento, mescolando ritmi classici e contemporanei, abbandonandosi alle ormai consuete tentazioni sinfoniche che spesso sfociano in un irresistibile vaudeville camp. Sempre diversi e, al tempo stesso, uguali a loro stessi, anche nel look ormai codificato (Russell dai tratti erotici ed efebici e Ron con baffetti alla Charlot) i Mael hanno sempre scelto di non cristallizzare per troppo tempo un sound ma di forgiare uno storytelling unico che ha fatto, e continuerà, a fare scuola (inevitabile l’associare immediata a gruppi «a due» come i Pet Shop Boys).

Anche in Hippopotamus, dunque, rimangono intatti i segni caratteristici che fin da subito hanno forgiato l’identità del duo: la spregiudicatezza vocale del falsetto di Russell, la perfezione mai scolastica delle melodie ma soprattutto la grandezza «testuale» di Ron nel demolire i totem culturali contemporanei, come il fanatico cliente IKEA di Scandinavian Design («Ho soltanto un tavolo e due sedie/Ma sono magnifiche»), o l’annoiato ascoltatore di Edith Piaf (Said It Better Than Me) («Edith Piaf l’ha detto meglio di me/Je ne regrette rien/Bella canzone ma non fa per me/Tempo di ascoltare un po’ di Muzak»).

Non è semplice provare a districarsi fra le quindici tracce, che flirtano con l’Eurodance, l’operetta, il rock e il drum’n’bass, diventa così un puro piacere fonico, un caleidoscopico safari dove, assieme all’ippopotamo, ogni tanto fa capolino qualche altro «animale» bizzarro come la soprano Rebecca Sjöwall in Life with the Macbeths o, nel caso più sorprendente, Leos Carax che in When You’re a French Director troviamo ai cori e alla fisarmonica, una sorta di tributo obbligato alla scelta del regista francese di inserire How Are You Getting Home? dritta dritta nella colonna sonora del capolavoro Holy Motors.