La favola è nota. Ma le versioni abbondano. Più o meno complesse, tutte fanno immancabilmente riferimento ad un certo numero di invarianti: un re saggio, un principe azzurro, delle fate, alcune cattive, altre buone, infine, ovviamente, una bella – sempre addormentata. È proprio studiando questi attributi fissi che il film di Ado Arrietta inventa la propria versione. Non tanto per fedeltà al racconto – che il regista spagnolo sposta nel 2000 – piuttosto per metterne in evidenza il paradosso. Da subito, sappiamo cosa accadrà. Non c’è dubbio che la bella si pungerà le dita con il fuso di un arcolaio e che dormirà per un secolo, perdendosi il XX, portandosi nel proprio sonno tutto un regno, fino a che, un bel giorno, un principe non la risveglierà. Ecco l’abisso che il film eredita dalla fiaba: se l’avvenire è già scritto, perché agire ? D’altra parte, se non si agisce, come fa il destino a compiersi?

La risposta di Arrietta, il quale non esita nelle sue interviste ad affermare, candido e malizioso, di credere alle fate e ai loro decreti, sarebbe senza dubbio questa: un incanto è come un film, non lo si subisce  ma non lo si compie. Certo, una volta che è stato detto (o scritto), esiste. Ma, proprio come una sceneggiatura, c’è da metterla in scena. Ora, lottare contro il destino, corrisponde a cedere all’illusione che basti essere al corrente del fato per scansarlo. Ecco che il re della favola pensa di poter evitare la catastrofe sbarazzando il proprio paese di tutti i filatoi mentre è proprio con questo decreto che il destino si compie. A questo fato, nessuno può sottrarsi: né le fate buone, né quelle cattive.

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C’è, in Belle dormant, una chiara diffidenza nei riguardi del potere performativo della parola e di quello che in genere lo veicola: la voce. Non che Belle dormant sia un film privo di parole. Una delle scene più belle è quella in cui, durante una passeggiata in elicottero, Matthieu Amalric (nel ruolo di un angelo schierato dalla parte della fata buona) racconta al principe Egon la leggenda del regno incantato di Kentz. Il dispositivo fa ovviamente pensare ai film parlati di Manoel de Oliveira: due personaggi posizionati uno accanto all’altro, guardano in direzione dello spettatore, un spiega, l’altro ascolta o rilancia. Arrietta non nega la forza della parola. Ma ne diffida come di una fata cattiva, proprio in virtù del suo potere di seduzione. Si potrebbe essere tentati di interpretare queste idiosincrasie nei confronti del dialogo classico come un vezzo del cinema underground. In realtà la riflessione sul potere della parola appartiene ad una corrente tanto radicale quanto classica del cinema: Lang, Chaplin, Godard: tutta una linea di cineasti si è costituita resistendo alla voce, denunciandone la presenza di un male tanto più infido ché non lo è sempre.

Per Arietta sembra che il mestiere del cineasta consista precisamente in una lotta contro l’incanto della parola. È famosa la sua maniera di dirigere gli attori, che disdegna la psicologia per concentrarsi sulla partizione ritmica dei silenzi tra una parola e l’altra. Poiché per Arrietta contenuto e forma fanno tutt’uno, questo punto di vista fa anche parte integrante della storia.

La fata buona, Gwendoline (Agathe Bonitzer eccellente con il sua sempiterna smorfia parigina) non fa che esprimere il credo del regista nel momento in cui avverte il principe che il pericolo, mentre attraversa il bosco, sarà nel canto. La fata è il regista e per questo anche lei non dirige Egon. Piuttosto, gli fa apparire magicamente – in una sfera di cristallo – un’immagine, nella quale il principe potrà esistere, brillare, incantare. Ora, questo contro-incanto non è l’ineffabile ma il ritmo, la musica, il ballo. Lo si capisce fin dalla prima scena, dove scopriamo Egon dietro la sua batteria, mentre suona il rock, con una sigaretta messa a posta per chiudergli il becco. Con una bocca così, non deve dire nulla, ma solo baciare.

L’incanto della parola è potente ma è anche facile, immediato e in fondo effimero: perché la parola definisce, immobilizza, tiene fermo.
Contro di lei, Arrietta e la sua fata creano un eroe la cui bravura consiste, né più né meno, a mettere in movimento quello che è fermo. Le due scene di ballo sono un capolavoro di perversione. Nella prima, Egon incontra Guendolina, ma è un twist: l’amore non può sbocciare tra di loro; colpo di scena annunciato, Egon dovra ballare con la Belle dormant.

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Questa volta sarà uno swing, come si addice ad una prima notte di nozze (to swing, alla lettera è muovere in avanti e indietro).
Al di là della metafora sessuale, muovere e mettere in moto corrisponde per Arrietta mettere in scena. Ecco perché ha sempre sofferto all’idea mettere un punto fermo i suoi film, fino a che il digitale non gli ha dato la possibilità di rimontarli all’infinito. E perché il suo cinema non è rivolto verso il passato, come questa storia di fate e di principi azzurri potrebbe suggerire.

Come l’incanto del Brigadoon di Minelli, a cui Arrietta ovviamente si ispira, il suo cinema non è nostalgico del passato. Certo è in parte indifferente al presente, che non esita a irridere. Nel personaggio del padre del principe, il re di Letonia (un ottimo Serge Bozon) si esprime in particolare la mediocrità dei nostri tempi. Giustamente: si esprime, parla. Il male, ancora una volta, è più nella parola che nelle cose. D’altra parte, l’esperienza immaginaria del regno di Kentz, che si sveglia da un sogno di cento anni, suggerisce una riflessione sul potere incantatore della tecnologia. È infatti nello spazio di un istante che gli addormentati, da poco desti, si abituano alle magie degli smartphones, abbandonandosi senza resistenze all’incomprensibille. Non è forse il rapporto della maggioranza degli utenti dell’alta tecnologia?

Un rapporto di beata ignoranza, ovvero un rapporto magico: ignoriamo come funzionano i nostri dispositivi; funzionano e questo basta. Questa riflessione è presente, ma che sia dolce o amara non è chiaro; si tratta di una critica negativa solo agli occhi di coloro i quali considerano che la magia, l’illusione e la credenza siano cose cattive. È fuor di dubbio che questo non sia il caso di Arrietta.