Cultura

Nel bizzarro paese degli abitanti senza più il «lato oscuro»

Nel bizzarro paese degli abitanti senza più il «lato oscuro»Giorgio De Chirico, «Piazza d'Italia», 1959

Narrativa italiana Il romanzo «Città delle ombre perdute» di Piero Bevilacqua per Castelvecchi

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 27 aprile 2022

Che posto strano questa Città delle ombre perdute, inventata da Piero Bevilacqua per i tipi di Castelvecchi (pp. 160, euro 17,50). Mirasole, città immaginaria, somiglia in tutto a una qualsiasi provincia italiana: cementificatori famelici, amministratori corrotti, sindaco fanfarone, gente che non vede l’ora di andarsene e altra incastrata, rassegnata a rimanere. Nella provincia nostrana la vischiosità dei rapporti sociali prende la forma della tradizione, della reiterazione che deforma il mutamento. Anche chi vive una dimensione metropolitana, pescando nel proprio album dei ricordi, non faticherà a dare un volto familiare ai personaggi che si aggirano per Mirasole: il farmacista, il barista, l’anziano professore, il matto del paese e via dicendo. Nessuno di loro è il protagonista, né il narratore.

La cittadina, col suo tran-tran apparentemente immutabile, è la vera protagonista del libro. Un ordine che si sgretola quando accade qualcosa di straordinario. Gli abitanti, infatti, iniziano a perdere l’ombra. Solo alcuni, a caso e senza un vero motivo.

LA PRIMA REAZIONE della politica locale è quella di trarre vantaggio da un fenomeno mai visto prima provando a trasformarlo in generatore, catalizzatore di finanziamenti pubblici e di filiere economiche. Il fenomeno imprime alla comunità le medesime dinamiche che abbiamo visto all’opera in occasione della pandemia, lo smarrimento di fronte alle versioni ufficiali, l’attesa di un vaccino. Ma tutto resta inspiegabile e quelle ombre, inafferrabili, sembrano prendere persino una qualche forma di autonomia.

Se Borges ha potuto scrivere un elogio dell’ombra («questa penombra è lenta e non fa male…»), lo stesso non si può dire di Bevilacqua, classe ’44, storico di lungo corso, già docente alla Sapienza, meridionalista e autore prolifico. Piuttosto, è un elogio della disombra.

Senza rischio di spoilerare, vale la pena apprendere che a un certo punto le donne e gli uomini che hanno avuto la ventura del disombramento smettono di andare a lavorare. Una sorta di Great Resignation indecifrabile, però, dagli stessi protagonisti.
L’etica del produttivismo come lato oscuro della vita. Irreali e ingannevoli, temibili o desiderabili, le ombre, da secoli, sono oggetto di studio (Eratostene le ha usate per calcolare le distanze terrestri e per tentare un primo calcolo della circonferenza della Terra) e soggetti letterari, materia per filosofi o psicoanalisti (dal mito platonico della caverna a Freud e ancora di più a Jung).

Anche l’arte non ne ha mai potuto farne a meno: per De Chirico «vi sono più enigmi nell’ombra di un uomo che cammina nel sole che in tutte le religioni del passato, del presente e del futuro». Per Bevilacqua l’ombra è sovrastrutturale: un «concentrato di cultura e frustate», piuttosto che un elemento innato dell’inconscio.

GRAZIE A UNA SCRITTURA godibile, la Città delle ombre perdute è un modo alternativo di scrutare dentro quella fase di distruttività del neoliberismo che Bevilacqua stesso denuncia dalle pagine dei saggi e dalle colonne di questo giornale: «La relazione fiduciaria fra gli uomini e il tempo storico, nata con l’età contemporanea, è andata in frantumi. Sull’avvenire nubi minacciose incombono con velocità crescente. E nel paesaggio che si profila la lista dei disastri annunciati dovrebbe togliere il fiato» (il manifesto del 27 gennaio 2022).

Mirasole ormai è un posto inquieto. La ripulsa ostinata del lavoro da parte dei desombrati creerà scompiglio anche molto lontano dalla città. Che ne sarà della città senza il produci-consuma-crepa? Come reagirà il governo?

SE È VERO CHE CREARE non è solo immaginare, la letteratura può servire a pronunciare tutto quello che resta fuori dalla narrazione rigorosa dello storico, implica una relazione più profonda tra chi scrive e chi legge, un scambio di immaginari reciproci, ma il nodo rimane quello che l’autore ha scandito in un altro saggio, Il grande saccheggio (Laterza, 2011): il capitalismo è incapace di immaginare un modello diverso da quello basato sullo sfruttamento del lavoro e delle risorse naturali. Insomma, un romanzo nell’epoca del neoliberismo distruttivo.

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