Al di là della querelle se questo sia un governo tecnico o politico – ogni governo è politico – resta un’anomalia della «strana» legislatura: è il terzo governo affidato a persona non eletta o a capo di un partito.

Dopo avere avuto un primo ministro Chance – non un giardiniere, in Italia non poteva essere che un avvocato – oggi siamo passati al suo opposto, per così dire, al «super-esperto». Allora, nei giorni esaltati della primavera del 2018 – in cui ai maggioritari 5 Stelle non pareva vero di poter imporre qualunque cosa al presidente della Repubblica – si andò a frugare nelle mail dei tanti che avevano espresso velleità di mettersi a servizio, scegliendone uno che poteva anche fare al caso. Una classe politica prescelta con criteri discutibili ha poi dato prova di sé, mantenendo in vita il parlamento pur di non farlo decadere e dando sostegno a tre governi che non potevano essere più diversi.

Dopo tre anni, nessuno ormai, nemmeno tra i «fans» più ammirati, pretende di chiedere conto di quanto fatto del 33 per cento dei voti, delle conclamate promesse elettorali dei 5 Stelle. Tant’è, l’accountability, in Italia, è solo un oscuro termine intraducibile. Eppure, se oggi il capo del governo lo ha indicato direttamente il presidente della Repubblica – scegliendolo non tra gli eletti, non tra i capi di partito – è perché questa classe politica, tutta, ha dimostrato la sua inettitudine. Verrebbe da dire «oggettivamente» se non fosse che, in politica, le attenuanti sono sempre più importanti delle prove.

Se è vero che sarebbe più utile discutere di prospettive, piuttosto che non riflettere della contingenza politica – e questi mesi davanti a noi dovranno finalmente farci interrogare – non ci si può esimere dal chiederci perché siamo arrivati a questo. Il presidente aveva chiesto un governo di «alto profilo», che guidasse il Paese «nell’emergenza». Mario Draghi ha messo insieme una compagine che si è scelto in alcune figure chiave e ha poi rafforzato, non poteva essere altrimenti, con altre che gli avrebbero garantito il sostegno del parlamento. Ha enunciato un programma sul quale non si può che convenire, su molti punti. Una filosofia di governo che può essere discussa ma non si prefigura da subito come «tecnocratica». E ha altresì lasciato intendere che ognuno potrà apportare il proprio contributo, ma sarà lui a farne la sintesi.

Eppure, viene da chiedersi: non poteva un governo «di alto profilo» essere proposto da quelle forze politiche che sostenevano il precedente con un programma come quello annunciato? Si è lasciata l’iniziativa a Matteo Renzi, invece di rilanciare sul terreno sul quale era egli stato più pretestuoso. Forse che Patrizio Bianchi, già assessore di Bonaccini, Enrico Giovannini, già ministro del governo Letta, non potevano essere proposti in origine come ministri di un governo M5S-Pd-Iv-LeU? E Marta Cartabia e pure gli altri «tecnici» (anche per il ministero del tesoro, non mancava certo la scelta di un economista di prestigio che potesse andare bene)?

Se c’è un risultato cui l’azione di Renzi e la reazione di Pd, M5S e Leu hanno portato è stata quella di rimettere in gioco Salvini e il centro-destra tutto. Ma non si è saputo guardare oltre, perché questa classe politica ne è incapace. Se questo governo è «spostato a destra» è solo perché lo sostiene anche la destra, non perché lo sia «intrinsecamente». Certo, il pensiero di avere un deus ex machina del blocco dominante al potere, sostenuto anche dalla sinistra, fa rabbrividire alcuni. Ma fare oggi i distinguo, quando non si è stati capaci di impedire il disfacimento, è fin troppo facile.

Non è stato solo il Pd a fallire e non soltanto in questa contingenza e non meno fallimentare è stata la compagine di LeU. E poco serve lamentare la ridotta rappresentanza parlamentare. Perché non vi è stata nessuna strategia politica nata come conseguenza del voto del 2018 che guardasse alle ragioni di quella riduzione. Se è nato un governo in apparenza «tecnico», non è perché la politica non ha saputo esprimerne uno, ma perché non c’è più il «corpo» che esprime la politica.

Quel corpo, nel linguaggio novecentesco, si chiamava Partito. Quell’organismo che raccoglieva istanze, rielaborandole, attorno ad un progetto, dal quale sarebbero derivati gli indirizzi concreti di governo. Disciolto il Partito, che non era né unico né monolitico (i suoi bonsai li aveva anche quello), ma originariamente omogeneo attorno a un progetto, si è però dissolta anche la politica, si è persa la capacità di raccogliere istanze – che pure ci sono nel vivo della società, che reclamano voce – navigando a vista. Le successive evoluzioni, scissioni, riaggregazioni, dispersioni, hanno tutte registrato quella perdita originaria.

Oggi siamo qui a discutere se appoggiare un governo o contrastarlo, indecisi se ci rappresenti o meno, se esprima o meno «la politica che vogliamo». Senza riflettere che noi, una politica, non l’abbiamo più. E non abbiamo neppure un partito.