La caratteristica della «crescita» celebrata nell’ultimo anno è la moltiplicazione di lavoro povero, a termine e precario. Tanto più cresce il Pil, tanto più gli impieghi sono intermittenti e sotto-pagati. A parità di occupati con il 2008 – a ottobre scorso le persone in attività erano di poco superiori a 23 milioni – le ore lavorate sono inferiori: 21,7 miliardi contro 22,8 di dieci anni fa. Sono aumentati i lavoratori a termine, mentre sono diminuiti quelli a tempo indeterminato. I primi sono passati dal 14% al 19%, i secondi sono calati dall’86% all’81%. In pratica, sono stati sostituiti da contrattisti a termine, part-time, senza contare le altre forme esistenti nell’arcipelago precario.

L’AUMENTO continua da sei trimestri ed è accompagnato da un boom del lavoro a chiamata (+77,9% in un anno) e di quello somministrato (+22,5%). Le posizioni a tempo determinato sono 390 mila, 81 mila in più rispetto al secondo trimestre, 146 mila in più rispetto al primo. Sono concentrate nel settore dei servizi, meno nell’industria, oltre che in agricoltura dove si ricorre di più al lavoro stagionale e discontinuo. In totale le attivazioni delle posizioni lavorative con contratto a termine hanno raggiunto il massimo storico: 2,86 milioni, il13,8 per cento in più solo nell’ultimo anno. Il lavoro a tempo indeterminato è, invece stabile: meno 6 mila unità nel trimestre. Anche il terzo trimestre 2017 ha confermato la mutazione strutturale del mercato del lavoro al tempo del Jobs Act.

QUESTA SITUAZIONE può essere rappresentata così: al centro il continente dei contratti a termine, intorno il lavoro a chiamata, intermittente e in somministrazione. Si spiega così anche l’apparente contraddizione per cui all’aumento degli occupati non corrisponde un calo della disoccupazione all’11,1% (3,2 milioni di persone), quasi il doppio rispetto al 2008 quando era al 6,1% (1 milione 480 mila persone).

ATTENZIONE: parliamo di «impieghi», contratti e «occupazioni», in inglese «Jobs», non di posti di lavoro a tempo indeterminato. Quando Renzi e il Pd dicono che dal 2014 ci sono 986 mila «posti di lavoro» in più in realtà calcolano gli occupati. Ecco perché hanno battezzato la loro «riforma» «Jobs Act», il totem del renzismo. L’astuzia di cambiare il senso delle parole, rivestendole con la pellicola anglo-dialettale dei tecnocrati di provincia, risponde alla realtà del lavoro che loro stessi hanno contribuito a creare. Gli esperti parlano di «casualizzazione» del lavoro e di sostituzione del lavoro full time come quello a termine. A differenza del primo ciclo del precariato negli anni Novanta, quando l’obiettivo era quello dell’individualizzazione del precariato fuori dalla contrattazione, oggi si generalizza il precariato nel lavoro dipendente. Risultato: abbiamo il tasso di occupazione più basso dei paesi Ocse: il 57,2% contro il 71,1%. Questo significa che non si crea nuova occupazione, si riproduce nuovo precariato in un perimetro più ristretto.

LA LEVA che ha permesso di tirare la volata alla crescita dell’occupazione non è tuttavia il «contratto a tutele crescenti», dove a crescere è solo la libertà di licenziare senza articolo 18, ma la «riforma Poletti» che ha cancellato la «causale» dei contratti a termine e permette fino a 5 rinnovi entro i 36 mesi. Se a ogni rinnovo di contratto per la stessa persona si calcola un occupato diverso ecco che si arriva, magicamente, alla cifra record del «milione-di-posti-di-lavoro» di berlusconiana memoria. Su questo trucchetto si giocherà l’intera campagna elettorale fino al 4 marzo. E continuerà anche dopo. L’ultima settimana è stata l’antipasto di quello che ci aspetta.

UN’INDAGINE dell’Adnkronos su un campione di oltre mille imprese sotto i 50 addetti ieri ha confermato che nel 2018 tutto proseguirà come nel 2017: dopo avere licenziato, queste imprese pensano di sostituire il tempo indeterminato con il lavoro a termine. Non serve dunque licenziare, basta aspettare la naturale conclusione del contratto. E questi contratti possono durare in media anche tre giorni. Questo è post-fordismo all’ennesima potenza. La forza lavoro è governata come gli stock di un magazzino: «la crisi – dicono le imprese – ha insegnato che le esigenze di oggi potranno non essere quelle di domani». La razionalizzazione capitalistica è compiuta. Questo è il nuovo eco-sistema preparato dal «Jobs Act». La sua eredità è quella di avere rafforzato il potere incondizionato dell’impresa.

C’È ANCHE chi (da ultimi, ieri, Confimprenditori) ritiene che, terminati con la fine del 2018 gli incentivi alle assunzioni ci sarà un’alluvione di licenziamenti. Può anche non accadere, basta ricorrere ai contratti a termine. E il giro di giostra ricomincerà. Come prima, più di prima.