«Puisque nos dieux et nos espoirs ne sont plus que scientifiques, pourquoi nos amours ne le deviendraient-ils pas également?» Le parole pronunciate da uno dei personaggi del celebre romanzo L’Ève future di Villiers de l’Isle-Adam suonano particolarmente attuali nel Giappone contemporaneo, dove il futuro profetizzato dal drammaturgo e poeta francese sembra aver acquisito una qualche concretezza. Non a caso la frase di L’Isle-Adam è stata scelta dal regista Mamoru Oshii come esergo per Ghost in the Shell 2: Innocence, capolavoro dell’animazione che – come osserva la studiosa americana Sharalyn Orbaugh in un saggio titolato «Sex and the Single Cyborg: Japanese Popular Culture Experiments in Subjectivity» (Science Fiction Studies,  2002) – esplora le connessioni e le disgiunzioni tra emozione e scienza, tema con il quale inesorabilmente ci impone di confrontarci l’irrompere di robot umanoidi e cyborg nella nostra quotidianità.

Amore, affetti e emozioni sono esclusiva degli esseri umani, o possono estendersi anche alle creature artificiali? Oshii suggerisce che l’emozione è precisamente ciò che ci manterrà «umani» anche dopo che i nostri corpi, grazie al progresso tecnologico, saranno diventati interamente – o quasi – artificiali. Che non si tratti solo di fantascienza basta a dimostrarlo uno sguardo alla società giapponese dove androidi gestiscono hotel, cagnolini-robot sono in grado di interagire con i propri padroni, e qui a Tokio, per strada compaiono gelatai meccanici.

L’era della bubble economy
A fronte del calo demografico e dell’invecchiamento progressivo della popolazione – il tasso di natalità del paese è uno di più bassi al mondo, e l’accudimento degli anziani (ma anche delle persone affette da handicap) è recentemente diventato uno dei temi più dibattuti – la produzione di robot più o meno umanoidi è in vertiginosa crescita. Stando all’Executive Summary World Robotics, infatti, solo nell’ultimo anno l’utilizzo di macchine nell’industria è aumentato del 10%, facendo del Giappone uno dei paesi a più alta densità robotica del mondo.

«L’epoca dei robot in Giappone risale agli anni della bubble economy, fra i Sessanta e i Settanta, quando molte imprese cominciarono a introdurre nelle fabbriche macchine ad alto livello di sofisticazione per incrementare la produzione soprattutto nel campo degli elettrodomestici e della nascente elettronica» – spiega Tsuchiya Junji, sociologo e docente dell’Università di Waseda.

«Queste macchine erano già robot e venivano trattate come androidi, anche se tecnicamente non lo erano perché avevano una forma geometrica, perlopiù cubica o rettangolare. La meccanizzazione in Europa è stata aspramente criticata e osteggiata in particolar modo dal pensiero marxista, che ha denunciato il paradosso degli operai costretti a assemblare quelle stesse macchine che poi li avrebbero sostituiti; ma in Giappone questa prospettiva non si è mai affermata: al contrario, l’introduzione delle macchine è stata accolta con entusiasmo, perché di fatto hanno sollevato i lavoratori dalle mansioni più faticose. Qui abbiamo una visione capovolta di quel modello di management del lavoro che la sociologia euro-americana definisce pot-fordismo. A partire dagli anni Settanta gli androidi hanno cominciato a venire trattati come colleghi, amici, come i supereroi dei mecha, i robottoni dei cartoni animati che tanto successo hanno avuto anche in Italia, da Goldrake a Jig Robot, macchine in comunione con lo spirito umano».

Aggiornata la nostra idea di robot umanoide, domandiamo a Tsuchiya Junji come la progettazione artificiale, e dunque la costruzione di un androide che riproduca nel modo più fedele possibile l’essere umano, si armonizzi con la spiritualità giapponese. «Nella prospettiva spirituale giapponese, la quale prevede che nel mondo tutte le cose siano create, i robot e le macchine rappresentano anch’essi una forma di incarnazione. Non la si considera esattamente una creazione, perché un androide non è il frutto dell’inventiva: si è più vicini a pensare che avrebbe dovuto già manifestarsi se non fossero mancati i mezzi per far sì che emergesse; ora, invece, il progresso tecnologico permette di rendere attuato ciò che prima era solo in potenza».

In effetti, una visita a alcuni laboratori giapponesi mostra come si lavori per dare forma a robot umanoidi sempre più realistici, che guardano, parlano, gesticolano e si muovono come uomini e donne. Hiroshi Ishiguro – tra i più conosciuti ingegneri robotici del paese, famoso per avere ideato Geminoid F, il suo clone robotico – ha dichiarato che alla base della propria ricerca c’è la voglia di capire cosa significhi essere umani. Del resto, a dare una idea di quanto la fantasia si sia spinta avanti in questo campo, basterebbe leggere le vicende dell’oscuro e geniale scienziato che nel Giovane robot di Sakumoto Yosuke, romanzo recentemente pubblicato da e/o (traduzione di Costantino Pes, pp. 224, euro 16,00) costruisce Tezaki Rei, un androide con fattezze di adolescente, che ha il compito di studiare gli esseri umani per portare loro la felicità. La storia è nata dall’esperienza personale dell’autore, colpito da una grave forma di schizofrenia all’età di diciannove anni. L’enorme successo riscosso dal romanzo in Giappone si spiega con i primi capitoli, dove viente tratteggiato un quadro che, se guardiamo a quanto in Giappone già appartiene alla realtà, non è più legittimo iscivere all’universo della fantascienza.

Basti pensare che l’Hotel Henn-na di Nagasaki è gestito quasi esclusivamente da robot, con estrema e sorprendente efficienza, mentre la componente realmente umana dello staff si riduce a sette persone a fronte delle trentacinque necessarie a una struttura di quelle dimensioni. La Aldebaran Robotics, società del gruppo Softbank, ha prodotto Pepper, ovvero un robot umanoide per famiglie, la cui caratteristica vincente è il fatto di essere personalizzabile, ovvero adattabile a un certo numero di nuovi compiti e funzioni. Secondo Ishiguro e il suo team, sta qui, nella flessibilità, la chiave per lo sviluppo di un legame che segni la vera svolta nella coesistenza di umani e umanoidi.

È un problema studiato anche da Dylan Glas, ingegnere americano che ha scelto di lavorare in Giappone, il cui team ha progettato Erica, ginoide semi-autonomo, basato su un dispositivo mentale incredibilmente avanzato il cui scopo è l’apprendimento: trattiene i ricordi ed è in grado di gestire conversazioni semplici, basate su quanto ha imparato. Come o meglio di noi?

La domanda adesso è: vogliamo robot che siano umani, o li desideriamo migliori di noi? Il Giappone sembra avere superato, grazie alla creazione di macchine sempre meno fredde, l’uncanny valley, quallo spazio perturbante  determinato, secondo lo studioso di robotica Masahiro Mori, da un eccesso di somiglianza, che crea disagio in chi entra in contatto con androidi troppo perfetti. Il crescendo di repulsione e inquietudine che ha dato vita a capolavori del cinema di animazione di fantascienza come Akira o Evangelion è stato spazzato via da una evoluzione tecnologica che ha fatto del kawaii, il «carino», la sua cifra.

Forse – come mostrano i visionari artefatti della giovane artista Etsuko Ichihara, una nuova generazione Geminoid verrà a lenire il dolore che sempre ci accompagna nel lutto e nelle separazioni. Il suo progetto «Digital Shamanism» – una combinazione di credenze popolari e tecnologia – sviluppa .robot programmati con espressioni, postura e tratti fisici del defunto, che rimangano con i familiari per il periodo di quarantanove giorni, quelli necessari – secondo il buddismo – per prendere definitivo conged o dal luogo e dalle persone care.