Plastica- pesci 1:1. Queste le previsioni per il 2050 se continueremo con i ritmi attuali di produzione e smaltimento. Sono state stimate almeno cinque grandi Garbage Patch: ammassi di dimensioni continentali, concentrati da giochi di correnti oceaniche, nelle quali fluttuano per sempre milioni di tonnellate di materiali che in alcuni casi abbiamo usato solo per pochi minuti. Una vera e propria piaga rispetto alla quale la Ellen Macarthur Foundation, una delle più grandi fondazioni private americane impegnate sul fronte della sostenibilità, ha divulgato recentemente una previsione da film dell’orrore: entro il 2050 il rapporto plastica-pesci potrebbe diventare di uno a uno. Questo grazie a un meccanismo di alimentazione che rifornisce le acque planetarie, secondo le stime degli esperti delle Nazioni Unite, di 8 milioni di tonnellate di plastica all’anno: come se ogni minuto, per 365 giorni, venisse riversato in acqua un intero camion della spazzatura.

La produzione mondiale di plastica è in costante aumento: attualmente, secondo Plastic Europe, associazione di produttori di materie plastiche, ne vengono prodotte 300 milioni di tonnellate ogni anno. Nel 2007 erano 150 milioni: raddoppio in soli 10 anni. Tassi di produzione crescente che dagli anni ’50 in poi, quando le resine sintetiche hanno fatto il loro ingresso in commercio, hanno generato un totale di 8 miliardi e 300 milioni di tonnellate di plastica; di questi, circa due miliardi sono ancora in uso, il resto è già diventato uno scarto. Rifiuti, il 79% dei quali è finito nell’ambiente. Questi sono solo alcuni dei dati forniti da un gruppo di ricercatori della University of Georgia, della University of California e della Santa Barbara and Sea Education Association, che hanno analizzato la produzione, l’uso e il destino della plastica dalla sua immissione in circolazione, e pubblicato la loro ricerca su Science Advance nel 2017. Secondo gli stessi ricercatori, mantenendo questi tassi di produzione e smaltimento, nel 2050 vi saranno 12 miliardi di tonnellate di plastica disperse nell’ambiente: più della plastica totale prodotta fino ad adesso.

Ma la condizione in cui versano i nostri mari è la spia di quella che non ha bisogno di queste previsioni allarmanti per essere considerata un’emergenza. La prima Garbage Patch venne scoperta, o meglio intuita, nell’Oceano Pacifico Settentrionale: osservazioni fatte da ricercatori con base in Alaska rivelarono che un vortice di convergenza di correnti nell’Oceano Pacifico stava creando una impressionante concentrazione di detriti plastici delle dimensioni del Canada. Il navigatore e ambientalista Charles Moore, fondatore della Algalita Marine Research Foundation, vi si imbatté con il suo yatch nel 1997, e successivamente documentò la presenza delle altre: da nord a sud, dal Pacifico all’Atlantico passando per l’Indiano, ve ne è una per ogni oceano. Il suo team diede il via a una serie di spedizioni oceaniche per osservare la distribuzione dei detriti di plastica. Un monitoraggio portato avanti per 11 anni tra il 2001 e il 2012, i cui dati vennero pubblicati da Enviromental Science and Technology, stimò un minimo di 21.290 tonnellate di plastica fluttuante. Un’indagine successiva, risultato di 24 spedizioni di Algalita svoltesi tra il 2007 e il 2013 in tutti gli oceani, incrementò la stima a 250 mila tonnellate.
Nel 2017 sempre Moore ha trovato una nuova chiazza in una lontana porzione del Pacifico meridionale: un’altra isola di plastica più piccola, dalle dimensioni di 8 volte e mezzo l’Italia. Il ritrovamento è avvenuto in seguito alla scoperta dell’Isola di Hemerson: una delle isole più remote e incontaminate del pianeta si presentò agli occhi degli esploratori completamente invasa dalla plastica. Il fatto che sulle coste sabbiose di un isola completamente inabitata e lontana 5 mila km da qualsiasi altra terraferma ci sia la più alta densità di rifiuti plastici mai rilevata, oltre ad essere straziante, ci mostra la dinamica generale delle Garbage Patch: potenti correnti oceaniche, i “gyre”, intercettano i materiali di scarto provenienti da diverse parti del pianeta e li concentrano in una sorta di vortice che si sposta e che nel momento in cui lambisce una costa vi deposita il suo carico. Ad essere visibili sono pezzi di plastica della più svariata origine e provenienza: contenitori, involucri, bottiglie, giochi, elettrodomestici, stoviglie e piatti, prodotti per l’igiene, qualsiasi cosa non goda dell’attributo biodegradabile.

Nonostante già in questa forma i rifiuti plastici provochino danni irreparabili agli ecosistemi, uccidendone gli abitanti, spesso specie rare che vi rimangono impigliate, o soffocati, o avvelenati, ad essere ancora più devastante è ciò che non si vede. I materiali di sintesi non si biodegradano, ma si decompongono: la maggior parte della plastica che forma le Garbage Patch non consiste in sacchetti o bottiglie galleggianti, bensì di micro frammenti di diverse dimensioni, a volte anche invisibili ad occhio nudo, che si estendono orizzontalmente ma anche verticalmente, in profondità, formando quello che lo stesso Moore definì «smog acquatico». È la luce del sole in particolare ad agire sui detriti plastici, arrivando lentamente a scomporli nei polimeri di partenza. Ecco così rimesse in libertà sostanze potenzialmente tossiche, le quali non sono distinguibili dal plancton, quindi vengono ingerite dagli organismi marini e finiscono in una catena alimentare che può arrivare anche all’uomo.
Neppure i mari della nostra penisola sono immuni. Anzi. Una ricerca del Cnr pubblicata nel 2016 su Scientific Reports ha rivelato che nel Mediterraneo un kmq arriva a contenere in superficie fino a 10 kg di plastica: valori addirittura superiori a quelli riscontrati nei vortici oceanici. Perché? Lo stretto di Gibilterra funziona come una sorta di imbuto dal quale i detriti entrano ma difficilmente escono, sommandosi a quelli prodotti dai paesi che si affacciano sul Mare Nostrum e che vi finiscono grazie ai numerosi fiumi che vi confluiscono.

È possibile ripulire gli oceani? Quattro anni fa un giovane olandese, Boyan Slat, brevettò una sorta di barriera galleggiante che, situata in punti chiave degli oceani, sarebbe in grado di intercettare i rifiuti e facilitarne la raccolta. L’idea è diventata un progetto, “Ocean clean up”. Dopo crowfounding e sperimentazioni, dovrebbe partire nel 2018, permettendo di eliminare il 50% della spazzatura marina nel giro di 5 anni. Su un altro versante, i microbiologi studiano batteri e insetti in grado di degradare la plastica. Solo un anno fa si è scoperto che gli straordinari meccanismi dell’evoluzione hanno cominciato a generare esseri viventi in grado di metabolizzare sostanze di recente introduzione come i polimeri sintetici. Ma ad oggi i tempi di degradazione di questi minuscoli esseri viventi sono ancora molto lunghi, e come per i cambiamenti climatici, è già tardi.