Attivista. È una bella parola. Con un significato forte. È qualcuno che s’impegna per qualcosa, magari anche andando oltre i limiti, personali o istituzionali.

Caterina Nitto ha 41 anni e ha da raccontare Una vita da attivista, come recita il titolo del suo libro (Mondadori). Ha iniziato giovane: quando si hanno 16 anni e nel porto di Venezia sfila una nave colorata e grossa come la Rainbow Warrior, una vera e propria icona, le energie si scatenano. «Rimasi colpitissima, oltre che dalla barca, anche da un gigante che c’era sopra, un vichingo… Non ero digiuna di barche, andavo a vela, sapevo che quello sarebbe stato il mio mondo, o comunque ci speravo, visto che era la mia passione. Ma era la prima volta che salivo su una barca da lavoro. È una sensazione diversa. Le navi cargo sono sempre in movimento, è come se non si fermassero mai, neppure quando immobili. Sono poi rumorose, e puzzolenti». Si può dire che quello sia stato il momento in cui è cominciata la sua crescita, non solo personale. «La mia esperienza all’interno di Greenpeace non è stata soltanto inseguire un sogno. Ho maturato una professionalità, come in un qualsiasi altro lavoro. Ho fatto carriera. Essere un’attivista significa parlare poco ma agire tanto. Detesto le persone che si lamentano e poi non fanno nulla».

Nei cinque anni passati tra la Rainbow Warrior e l’Esperanza ha partecipato a numerose spedizioni in Asia e Oceania, andando due volte in Antartide. Esperienze forti, da ogni punto di vista – fisico e mentale – ai limiti della sopportazione. «La difesa delle balene durante il periodo di caccia è solo una piccola parte delle campagne messe in atto da Greenpeace. È la più famosa ed è giusto che lo sia, in quanto anche le modalità sono a dir poco spettacolari. In questo senso, funge da traino, è mediaticamente utile. Non intendo sminuirla. Anzi. Penso però che la caccia alle balene si debba vincere prima in Giappone che in Antartide. È un commercio inutile. La carne di balena non è di uso comune, non fa parte della dieta giapponese. Si consuma in pochissimi ristoranti lussuosi, è un cibo d’élite, venduto a prezzi altissimi. Per alimentare questo mercato si affronta una campagna di nove mesi in cui queste baleniere, lunghe e strette come vere e proprie navi da guerra, riducono l’Antartide, sempre così bianca e immacolata, in un inferno di sangue e scarti. Si naviga in mezzo alla morte…».

Caterina Nitto è la prima donna boat driver italiana. «I nostri gommoni si frappongono tra l’arpione delle baleniere e l’animale. L’arpione contiene esplosivo che entra in azione una volta penetrato dentro il corpo della balena. A quel punto, se malauguratamente riesce a colpirla, noi ci allontaniamo. Perché l’ultima cosa che possiamo fare per lei, è lasciarla morire il più in fretta possibile, limitandone l’agonia».

C’è rispetto, anche per i nemici. «Non capisco e non giustifico le azioni dei marinai giapponesi sulle baleniere. Come professionisti, però, sono grandiosi. Guidano le loro navi, tra l’altro difficilissime da pilotare, come se fossero scooter a Milano… Una nave funge da apripista e cerca le balene, dietro c’è la flotta di baleniere e navi officina dove vengono macellate e surgelate».

Andare per mare, per lei, non è mai un soffrire ma un godere. Neppure nei momenti più difficili, durante il corso di sopravvivenza: due settimane estreme passate nel Mar Baltico senza orari, in situazioni al limite. «Guidare un gommone non vuol dire sopravvivere ma sapere sempre cosa fare».

Oggi, pur collaborando ancora con Greenpeace, non parte più per l’Antartide, «non ho più l’età». Continua a lavorare con il mare e con le barche e per vivere ha scelto la Sardegna, una terra che ama profondamente e in cui cerca di condurre una vita il più possibile ecosostenibile. Si sente una persona normalissima perché «per salvare il pianeta, non serve essere un super eroe».