Bizzarro memoir, dolente ma capace di improvvisi guizzi ironici, costruito intorno ad una ricerca linguistica e a un timbro narrativo che si fanno eco del trascorrere del tempo, Negroland (66thand2nd, pp. 266, euro 16, traduzione di Sara Antonelli) può essere letto anche come una sorta di straordinario libro di storia che scandagliando la memoria interroga in profondità il presente.

Nel ricostruire le vicende dell’alta borghesia nera di Chicago, Margo Jefferson non ripercorre in realtà solo la storia della sua famiglia, ma quella delle generazioni che si sono succedute dal tempo della schiavitù fino alla stagione dei diritti civili. I momenti più intimi, le pagine di un diario domestico squadernate a mostrare le tracce di ferite interiori, si intrecciano così inestricabilmente con una memoria collettiva, con quanto la storia stessa del paese ha tracciato in maniera altrettanto indelebile sulle vite e i corpi di una parte degli americani.

Docente alla Columbia University, a lungo firma del New York Times e di Newsweek per il teatro e la letteratura, vincitrice di un Pulitzer per la critica nel 1995 e autrice nel 2006 di un saggio dedicato alla stella del pop, On Michael Jackson, con Negroland Margo Jefferson costruisce un testo emozionante e indimenticabile e racconta, con un piglio che fa pensare, pur nelle evidenti differenze, ad autori come Paul Beatty e Ta-Nehisi Coates, una pagina decisiva nel percorso dell’America nera.

Tra le protagoniste del festival Letterature che si apre domani a Roma, Jefferson sarà a Massenzio il 3 luglio e il 4 parteciperà alla sezione Letteratura di African Metropolis, rassegna che si inaugurerà il 22 giugno al museo Maxxi di Roma con un incontro con Alain Mabanckou.

Il suo libro suggerisce che quando negli Stati Uniti si parla di «razza» si sta in realtà parlando anche di genere e di classe. «Negroland» ci aiuta a guardare dentro le scatole cinesi delle molteplici oppressioni e del loro intreccio?
Era sicuramente quello che volevo spiegare. Ho chiamato razza, genere e classe la mia (e la nostra) «triade laica». Non serve parlare di stato razziale, discriminazione razziale e oppressione, lotte razziali e possibili risultati – senza analizzare questi particolari. Quando li ignoriamo, stiamo parlando di generalizzazioni semplicistiche. Legale, culturale, politico, psicologico: le differenze di genere e di classe influenzano ogni parte della nostra vita.

In che misura il femminismo ha plasmato il suo modo di guardare al tema della «razza»?
Enormemente. Volevo rappresentare la vita di ragazze e donne nere con grande precisione storica ed emotiva. Il fisico, il sociale, l’intellettuale e il psicologico. Volevo rendere impossibile per un lettore sperimentare la narrativa della razza senza sperimentare anche le narrazioni di genere e classe. L’intersezionalità implica sempre contraddizione, ambivalenza e vulnerabilità. Il femminismo nero mi ha dato gli strumenti come scrittrice per descrivere e analizzare tutto ciò.

Lei riporta una frase scritta da sua madre in una lettera: «Sono così felice che a volte quasi dimentico di essere negra». C’è un filo ininterrotto che sembra segnare le vite delle donne della sua famiglia, dove il dolore e la sofferenza sono celate sotto la rigida adesione a dei canoni precisi, nell’aspetto fisico come nelle «performance in società». Il mondo dell’élite nera si è costruito sulla parziale rimozione della realtà del paese?
Si tratta di una lettera che lei scrisse ad un’amica subito dopo il matrimonio e nella citazione sia l’«a volte» che il «quasi» sono cruciali. È la sua doppia consapevolezza che essere una «negra» significa che sei continuamente cosciente della discriminazione e dell’oppressione ma che, allo stesso tempo, ci sono momenti, esperienze nella tua vita che ti danno la libertà della gioia e del piacere totali. Direi che il mondo dell’élite nera non si è costruito per rimuovere la realtà della supremazia bianca, ma per proteggere – schermare – noi il più possibile dal peso di tutto ciò. I canoni del privilegio borghese e della performance sociale erano strumenti e tattiche. Entrambe, erano anche sia costrizioni che protezioni.

Cosa significava concretamente per una giovane donna crescere a «Negroland»?
Significava essere sempre consapevoli del proprio privilegio: i premi, i rischi, le responsabilità. Significava che dovevo essere un esempio per la società «in bianco e nero» di tutto ciò che una persona di colore e una donna di colore potevano ottenere. Il che voleva dire che avrei fatto meglio a raggiungere un buon risultato. Perché non ero mai solo un individuo: sono sempre stata un simbolo.

La parola «negro» ha ancora una forte carica. Perché ha scelto deliberatamente di utilizzarla e cosa rappresenta negli Stati Uniti?
È una parola datata, e usarla può implicare una scelta deliberata, politicamente conservatrice – un rifiuto esplicito ad usare «nero» o «afroamericano». Io l’ho utilizzata per indicare uno specifico momento storico, quando era la parola preferita dai neri. Un periodo che si estese dall’inizio del XX secolo alla fine degli anni Sessanta.

Cosa resta della fase della società americana descritta nel libro?
Si tratta del periodo che precedette il Black Power, ma che era parte integrante della stagione del movimento non-violento per l’integrazione e i diritti civili. Molto è ovviamente cambiato, anche se, perlomeno in termini sociali le élite nere sono ancora al loro posto, anzi sono forse cresciute in peso e ruolo.

Con l’elezione di Obama si era parlato del debutto di un’era «post-razziale». Poi è arrivato Trump. Che cosa non avevamo capito?
Che secoli di razzismo, di supremazia bianca, sono radicati profondamente nelle strutture e nella psiche americane. Perciò, cambiamenti reali richiedono un lavoro costante su molti fronti – legale, politico, culturale e psicologico – e per molte generazioni. Un singolo evento, che si tratti della Guerra Civile o dell’elezione del primo presidente nero e birazziale, mette in moto il cambiamento. Ma provoca anche dei contraccolpi, tanto più intensi quanto lo sono stati i balzi in avanti. E molte persone hanno sottovalutato quei contraccolpi: il desiderio e la determinazione di tornare all’«ordinaria amministrazione» degli Stati Uniti in cui il predominio e la superiorità dei bianchi erano la norma.

Oggi non c’è solo un ritorno della retorica razzista, ma anche di violenze diffuse, specialmente contro i giovani neri. È qualcosa che continuava ad accadere, solo lontano dallo sguardo dei media, o oggi le parole di odio si stanno trasformando in azioni? E, in questo senso, come guarda a movimenti come Black Lives Matter?
Questo tipo di violenza – la violenza della polizia, la violenza impunita contro i cittadini neri e le ingiustizie del sistema carcerario – sono accadute a lungo lontano dai riflettori dai media. Perciò è incoraggiante vedere giornalisti investigativi e studiosi che oggi si impegnano per fare luce su tutto ciò. Quanto ai movimenti che si stanno attivando ora, io non solo sto dalla parte di Black Lives Matter, ma guardo con entusiasmo all’evoluzione dei tanti gruppi di attivisti che combattono abusi e ingiustizie. Penso anche alla March for Our Lives, partita dai ragazzi della Florida che vogliono fermare le stragi nelle scuole, come quella di Parkland, o MeToo e Times Up.

Qualche anno fa lei ha dedicato un libro a Michael Jackson, descritto come una personalità capace di giocare con le nozioni di genere e razza. La star del pop è riuscito a sovvertire i «codici non scritti» che regolano la vita a «Negroland»?
Con la sua vita, la sua carriera e il suo mutevole personaggio Michael Jackson ha rappresentato quasi ogni ossessione della cultura americana. C’era la razza – come apparenza, come realtà sociale, come tradizioni musicali e di danza. C’era il genere – come una serie di costrutti e spettacoli biologici e sociali. C’era la sessualità – come mistero, pericolo e violazione dei confini. Tutto questo risultava affascinante per me, anche se penso che, malgrado qualche volta abbia effettivamente sovvertito questi codici, Jackson il più delle volte ne è rimasto intrappolato.