L’umidità scivola nelle stanze disegnate da Portaluppi, il profumo della terra inzuppata di pioggia del giardino s’insinua nella casa; sotto un Sironi scolpito col colore, accanto alle statue di Martini, tra un De Pisis e un Carrà, le opere di Mario Negri sembrano stare come tra vecchi amici. L’atmosfera sospesa, rarefatta, di Villa Necchi Campiglio, amplificata dalla luce debole di novembre, s’accorda perfettamente ai bronzi di Negri che sono come mastabe, come are, come pietre lavorate in un tempo e in un mondo remoto. Quaranta lavori dell’artista valtellinese sono raccolti, fino al 6 gennaio, in Mario Negri. Scultore a Milano. È la seconda, postuma monografica meneghina dedicata allo scultore di Tirano (1916-’87). La mostra è curata da Luca Pietro Nicoletti con la collaborazione di Chiara, Marina e Maria Laura Negri, figlie dell’artista.
Come dice il titolo dell’esposizione, è una questione milanese, compiuta però in una Milano che resta sempre il capo sud della Statale 36: la strada del ritorno. Negri si definiva infatti uno «scultore retico pedemontano con ascendenze camune». Il senso d’appartenenza a quell’angolo di mondo dove gli è capitato di nascere, tra valli e montagne, gli apre l’anima, ne rende limpido lo sguardo, ne approfondisce il pensiero in un’indagine continua del sé attraverso le proprie radici; la religiosa simbiosi con quel territorio gli permette di raccoglierne umori remoti, ancestrali, tra le ombre delle sere d’inverno, le rocce riarse dell’estate e i segni del passato incisi sulla pelle dei monti.
Per lui, come per Giacometti, non c’è Parigi senza Stampa, e viceversa. Esistenza pubblica, ricerca artistica, opere e biografia restano inscindibili e i sentimenti dei luoghi strutturano il lavoro e la vita. Per esempio, sollecitato dai ragionamenti sull’ambientazione della scultura contemporanea e passando per alcune esperienze di Henry Moore, pensava che «solo lassù, nei pascoli delle malghe dell’altopiano, le sculture debitamente messe a dimora, finalmente libere, potranno vivere una loro autonoma vita, come di massi erratici. E nelle notti di luna piena vi sembreranno essere state lì da tempi immemorabili».
Milano è, in ogni caso, un punto di arrivo essenziale. Nella città lombarda che si stava velocemente rimettendo in piedi dopo i bombardamenti Negri trovò la concretizzazione delle proprie contraddizioni, programmando la scoperta del proprio futuro attraverso un lento, pragmatico accostarsi alle tecniche più tradizionali della scultura. Dal 1946 cominciò così un lungo periodo di formazione non negli studi degli artisti, ma nelle botteghe artigiane, certo che l’officina, la manualità, la conoscenza in prima persona dei mezzi tecnici della scultura sarebbero stati la base essenziale per il proprio lavoro creativo.
Un altro praticantato avvenne, tra coscienza e conoscenza, collaborando a lungo con «Domus» come recensore. Un’attività che permise a Negri un confronto con la scultura contemporanea (e non solo) nella ricerca e costruzione dei propri valori. Con una lucidissima capacità di autogestione, l’attività critica cessò deliberatamente in coincidenza con la sua prima personale nella Galleria del Milione del 1957. Dopo questo lungo tirocinio si scopre un artista colto, aggiornato, che ha trovato nella decodificazione della poetica dei colleghi la propria via personale alla figurazione. Uno scultore che non scenderà più a compromessi, a costo di isolarsi in un’investigazione solitaria, saldo nell’aggregazione e nel dialogo con i propri punti di riferimento che dalla maturità saranno pressappoco costanti: Arturo Martini, Fritz Wotruba, Picasso, Modigliani scultore, Moore e, con una consonanza d’intenti che si trasforma in un’amicizia, Alberto Giacometti.
I timori, l’indecisione, i dubbi, levigano negli anni le superfici delle sue opere come gli elementi la materia minerale. Ogni lavoro è una sintesi frutto di un processo lento, fisico e mentale. Le esperienze acquisite fanno sempre da bussola: il ricco bagaglio letterario, il «privato museo immaginario» dove Benedetto Antelami, Giovanni Pisano o Arnolfo di Cambio contano tanto o più di Rodin, Henri Laurens o Eduardo Chillida. Così questa ricerca pervicace porta a soluzioni formali nuove, come lo sviluppo dei basamenti in lunghi steli su cui si stagliano, quasi smaterializzate dal controluce, figure «goticamente lanciate su quelle guglie nello spazio» (è una definizione di Cesare Gnudi) o, come dirà Giovanni Testori, «astili trofei di processioni laiche, tra moderne e antichissime».
Con gli anni le superfici dei bronzi, tecnicamente perfetti, sono sempre meno scabre, le patine uniformi e preziose, mentre il rapporto tra figura e piano si risolve studiando i bassorilievi romanici: Negri trova, come Giacometti, un costante punto di riferimento nella scultura antica, egiziana, romanica, gotica. Ed esige, come dirà Luigi Carluccio, già compagno di sventura nei campi di prigionia tedeschi durante la guerra, una «semplicità essenziale in cui si placa l’antinomia tra una forma plastica incontrata nel vero ed un’altra forma», quella assoluta, ideale, assorta in una dimensione arcaica e solenne. Mentre fuori dallo studio di via Stoppani il mondo cambia e la tradizione di cui si sente erede si va esaurendo, la sua ricerca continua ininterrotta. Nell’81: «Gli unici compagni che ho avuto sono io e la mia solitudine, il lavoro e i maestri ideali, antichi e moderni, che mi sono scelto ed i bravi, onesti artigiani dai quali ho appreso il mestiere».
La mostra di Villa Necchi non presenta l’opera di Negri in ordine cronologico. Integra alcune delle sculture più rappresentative nel giardino e nelle sale dei primi due piani e ne accorpa invece un nucleo nel sottotetto in un allestimento pulito, che risalta la potenza formale delle opere grazie ad altezze diverse, creando punti di vista, scorci e rapporti in un insieme polifonico, riprendendo una modalità espositiva cara allo stesso artista.
Rimane, all’uscita, una placida serenità, come dopo aver osservato a lungo un paesaggio alpino, come se le sculture fossero relitti «liberati da ogni preconcetto estetico, un poco oggi, un poco domani, o mesi o anni finché non trovino il proprio completamento da se stesse, l’assestamento nel mondo del visibile il più vicino possibile ad ogni fenomeno naturale». Come se nei sottosquadra ombrosi, negli allungamenti, nelle masse fisiche, rocciose, sollevate dalle loro basi su appendici sottili, nella solenne spiritualità che emanano, queste sculture fossero una specie di solidificazione dell’infinito trascorrere del tempo. Per assommare – per dirlo, di nuovo, con parole sue – «il tutto in quell’indispensabile poco in cui dimora l’eterno». Si coglie, insomma, quell’umiltà religiosa della ricerca – parafrasando un ricordo dell’amico Dante Isella – che era per Negri un imperativo morale vissuto in una costante, spesso faticosa, leale obbedienza.