La «Voce del califfato», neonata emittente di Daesh nel Paese dell’Hindukush, sarebbe stata distrutta da un raid aereo americano. La notizia, che cita fonti militari Usa e locali, la rilancia la Bbc ma il condizionale è d’obbligo. È da settimane che infuria la polemica sulla radio clandestina che trasmetteva dalla provincia di Nagharar (frontiera col Pakistan) da metà dicembre. La stampa afghana non sembra considerarla una notizia da prima pagina e per ora non ci sono prove definitive che Daesh sia stato almeno zittito.

Quel che merita un posto importante è invece la notizia della decisione di Kabul di aderire alla Global Coalition against Daesh che ha già messo insieme una sessantina di Paesi. La preoccupazione di un’espansione delle mire califfali su quel che Daesh chiama già Vilayet Khorasan, «provincia» dai contorni incerti ma che comprende certamente Afghanistan e Pakistan, è forte nonostante i problemi che la leadership di Raqqa incontra fra talebani afghani e pachistani. Non di meno, alcune frange dei due disomogenei movimenti (le varie fazioni afghane e il Therek Taleban Pakistan o Ttp) hanno aderito al progetto insinuando nella guerra infinita un nuovo elemento di disturbo. Altri elementi confondono un quadro sempre più violento e dove si muovono ormai una miriade di protagonisti con agende diverse: un altro fronte oltre a quello mediorientale e libico.

Partiamo dall’ultima iniziativa volta a creare le premesse di un negoziato con la guerriglia almeno in Afghanistan (in Pakistan i negoziati col Ttp sono morti un anno e mezzo fa e da allora si è optato per la sola soluzione militare). La prende Islamabad in luglio, convocando un incontro in Pakistan dove partecipano guerriglia e governo di Kabul. Ma negli stessi giorni si diffonde la notizia della morte di mullah Omar – seguita da polemiche e scissioni interne – e subito dopo parte una stagione di attentati stragisti che risvegliano sentimenti anti pachsitani mai sopiti in Afghanistan e seppelliscono il primo serio tentativo negoziale. Islamabad ci riprova in gennaio, mettendo in piedi con Kabul, Pechino e Washington, una «quadrilaterale» che ha il compito di scrivere una road map negoziale.

Nei giorni scorsi infine, Pugwash – organismo internazionale di mediazione di conflitti – organizza la seconda conferenza sull’Afghanistan cui invita i talebani. Questi si presentano con una lista di precondizioni.

Molte sono inaccettabili ma è un altro passo avanti. L’altro ieri però, l’ennesimo attentato nella capitale ammazza una ventina di civili e fa il paio con un eccidio di giornalisti afgani che si consuma alla fine di gennaio sempre a Kabul. Nuovi macigni sul processo negoziale non ancora iniziato e tutte azioni rivendicate dai talebani anche se solo quella contro la televisione Tolo appare sul sito ufficiale della cosiddetta shura di Quetta che fa capo a mullah Mansur il nuovo leader (contestato) dei talebani.

Che sia difficile trattare sotto una salva di bombe e attentati che per di più colpiscono inesorabilmente i civili è piuttosto chiaro. Cosa vuole allora la guerriglia? Chi rema contro? Chi mette in crisi i tentativi di Islamabad di uscire dal ghetto di Paese paria, sempre accusato di dare rifugio al jihadismo globale e, soprattutto, ai talebani afghani?

La domanda resta senza risposta anche se si possono azzardare chiavi di lettura. Islamabad sembra seriamente intenzionata a far pressione sui talebani che in parte controlla. Ma non può farlo su tutto il movimento. Accanto a Mansur, che pare attento alle richiesta pachistane, c’è Siraj Haqqani, un qaedista da sempre contrario alla mediazione. Intanto dalla scena negoziale sono sorprendentemente spariti i sauditi (ora in rotta con Islamabad), che nelle vicende afgano pachistane hanno sempre giocato un ruolo primario. C’è un nuovo balletto delle ombre ai piedi dell’Hindukush. Non estraneo forse al Grande Gioco in corso in Medio oriente.