Non solo i sociologi, ma anche una band come i Parliament, che in un brano del 1975 parlava di «Chocolate Cities and Vanilla Suburbs», hanno sottolineato come le norme contro la segregazione abitativa degli afroamericani più che trasformare le metropoli degli Usa ne abbiano modificato la polarità: quando i neri sono sbarcati in centro, il ceto medio bianco si è trasferito nelle periferie residenziali.

UN FENOMENO INIZIATO nel periodo tra le due guerre mondiali, evidente dopo che nel 1968, all’indomani dell’assassinio di Martin Luther King, quando esplose la rabbia dei ghetti neri, Lyndon Johnson firmò gli ultimi atti della legge sui diritti civili, compreso quel Fair Housing Act che intendeva mettere fine proprio alle discriminazioni sugli alloggi.
A distanza di mezzo secolo, il bilancio positivo di quella norma resta innegabile, anche se quella legata alla casa è tra le forme di razzismo più persistenti nel paese. Un’indagine condotta dal New York Times a partire da un caso concreto, evidenzia i limiti della legislazione vigente, oltre all’eco crescente che il pregiudizio razziale torna a riscuotere tra gli americani nell’«era Trump». Epicentro della vicenda è il quartiere di Galleria, una elegante zona commerciale e residenziale a pochi chilometri dal centro di Houston, la principale metropoli texana.

IN BASE ALLE DISPOSIZIONI contenute nel Fair Housing Act, che prevedono di favorire la mixità sociale e comunitaria e di evitare il formarsi di ghetti etnici, l’ente responsabile per le questioni abitative, la Houston Housing Authority ha proposto di costruire da quelle parti un edificio per alloggi a basso reddito destinato ad ospitare 233 unità, persone provenienti dalle zone più povere della città, dove i neri prima e ora gli ispanici rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione. Un progetto, denominato Fountain View Drive, contro cui è insorta da subito.

Guidata da due anni dal sindaco afroamericano e democratico Sylvester Turner, Houston è lontana dagli stereotipi razziali del Texas e si caratterizza per una politica di integrazione, specie nei confronti della comunità ispanica locale. Malgrado il razzismo non sia mai stato evocato apertamente nei molti incontri pubblici tra i residenti di Galleria e i rappresentanti dello Hho, i problemi citati, il sovraffollamento delle scuole locali, i pericoli relativi alla sicurezza, con il possibile diffondersi della droga e della street-culture, il rischio di un mancato inserimento sociale dei nuovi venuti, contribuiscono a definire uno scenario comune a centinaia di altri centri di tutto il paese in cui la popolazione si è opposta all’arrivo di questi nuovi abitanti.

LE LEGGI che assegnano i crediti fiscali federali, 8 miliardi di dollari l’anno, su cui si basano progetti come quello di Houston, sono di pertinenza del Tesoro e non includono alcuna disposizione che riguarda la segregazione razziale. Inoltre, ogni stato può decidere quali progetti adottare. Allo stesso tempo, l’opinione negativa dei residenti a tali iniziative potrebbe essere superata solo con la forza, come accadde, oltre che nel Sud, negli anni ’70 a Boston per favorire l’integrazione scolastica tra bianchi e neri. E c’è di più.

IL COSTO DEGLI ALLOGGI costruiti in virtù del Fair Housing Act è regolato dal mercato, sono privati a realizzare le opere in base a bandi pubblici, e perciò si preferisce spesso costruire nelle zone popolari dove i prezzi delle aree fabbricabili sono più basse. Il risultato è che, come ha dichiarato Chrishelle Palay, l’avvocato per i diritti civili che ha seguito la vicenda texana, «le istituzioni stanno di fatto contribuendo a conservare le divisioni razziali del paese».