In una conversazione con Lisa Ginzburg, che risale alla pubblicazione, nel 2017, di Mio padre la rivoluzione (minimum fax) Davide Orecchio affermava che «raccontare il tempo equivale a raccontare un racconto. Che cos’è infatti il tempo se non una cronaca?». È un passaggio che aiuta a capire quel che si svolge nell’ultimo romanzo dello scrittore romano, Storia aperta (Bompiani, pp. 672,€ 22,00) dove il tempo è un vissuto personale del protagonista, che per molti versi è l’alter ego del padre di Orecchio; nel contesto complessivo e variegatissimo del romanzo, quel tempo personale si svolge intrecciandosi al tempo universale, alla storia del secolo XX, così dinamicamente tragica da rendere indispensabile la citazione di fonti a sostegno, affinché il racconto stesso non rischi di volatilizzarsi in una sorta di curioso quanto inevitabile dinamismo un po’ futurista.

Pietro Migliorisi, l’alter ego del padre di Orecchio, è in Storia aperta l’uomo che, vivendo il tempo di quel Secolo breve fino in fondo, in tutte le sue quasi sempre drammatiche svolte, cerca continuamente di uscirne. Evadere dal Novecento ha per Migliorisi – personaggio già comparso in Città distrutte e ora, grazie a un lavoro di raccolta e di confronto storicamente notevoli, al centro di questa storia – il senso di affacciarsi a un tempo altro, che possa considerarsi giusto sia per la coscienza individuale, sia oltre i suoi confini.

In cerca di un «padre», Migliorisi lo trova inizialmente nella politica: si affida al fascismo (da giovane) poi alla resistenza e al comunismo (da adulto). La sua dialettica con il padre «letterario», l’autore stesso, diventa il palcoscenico per l’incontro di Davide Orecchio con il proprio genitore reale, in una conversazione che si svolge in un tempo ancora altro da quello che ha riguardato il protagonista. Compaio, a aiutarlo o a ostacolarlo nella sua fuga dal tempo, Mario Alicata, Antonello Trombadori, Fausto Calamandrei, Davide Lajolo e molti altri il cui appello è demandato alla davvero notevole «Appendice delle Fonti»; dove apprendiamo come ogni volta che a parlare è il padre, Alfredo Orecchio, le sue parole siano tra «», e come l’Orecchio autore del volume sia «il figlio tardivo di un figlio del Novecento», diviso da ben cinquantaquattro anni dal proprio genitore.

Orecchio padre «presta» dunque al Migliorisi protagonista parti della sua esistenza, nelle quali sono mischiati frammenti di vita di suoi contemporanei, che con lui hanno condiviso quel tratto di Novecento, prendendo la forma di un’esistenza quasi plurale. Il ritratto che ne risulta è non soltanto psicologicamente complesso, ma contagiato dalla causalità che il Novecento ha indotto in quei suoi protagonisti, votati a scelte drammatiche, spaesati tra la sensazione di una alternativa e un passaggio all’azione quasi inevitabile.

Anche il lettore di Davide Orecchio viene colto da questo spaesamento, mentre si trova rimandato da una voce a un’altra, talvolta incerto nell’ascolto di chi sta parlando in quel momento. È uno smarrimento che si manifesta peraltro in uno stile perfettamente coerente, che scaturisce direttamente dai sentimenti dell’autore, dopo la morte del padre e la notizia che egli aveva partecipato volontario nella Guerra d’Africa. Questa la rivelazione, questo lo scossone esistenziale che ha spinto Davide Orecchio al suo certosino lavoro di ricostruzione e di scrittura, per «raccontare infine la verità», mentre lo spaesamento del lettore e quello dell’autore si rafforzano e si sostengono a vicenda, arrivando infine ad accettarsi.