Il conflitto nella regione ribelle del Tigray derubricato dal governo etiope in «azione di ripristino della legalità» è sempre più nebuloso. Con il blocco delle comunicazioni telefoniche e internet gli unici a parlare sono i contendenti e il rischio propaganda vs disinformazione è altissimo.

A questo si aggiungono altre fonti che seppure qualificate non apportano prove sufficientemente attendibili. Il fulcro diplomatico gira intorno alla qualità del conflitto. È interno? Oppure vede coinvolti altri Paesi (Eritrea)? Nel primo caso la diplomazia ha poche possibilità di intervenire perché la questione attiene la sovranità di un Paese, nel secondo le possibilità di pressione sarebbero maggiori.

La domanda è quindi i militari eritrei sono attivi nel Tigray? Fonti diplomatiche statunitensi hanno dichiarato alla Reuters di avere prove (immagini satellitari, intercettazioni e report) del coinvolgimento dell’Eritrea, si ritiene che le truppe eritree siano entrate in Etiopia a metà novembre attraverso tre città di confine: Zalambessa, Rama e Badme. «Siamo a conoscenza di rapporti credibili sul coinvolgimento militare eritreo nel Tigray e lo consideriamo un grave sviluppo. Chiediamo che tali truppe vengano ritirate immediatamente» ha dichiarato un portavoce del Dipartimento di Stato americano. Ma il ministro degli Esteri eritreo Osman Saleh Mohammed ha dichiarato: «Non siamo coinvolti. È propaganda».

Ritorna, poi, il tema delle uniformi sempre la diplomazia degli Stati Uniti cita contatti con abitanti di Makellé che avrebbero osservato la presenza di militari eritrei: «Alcuni indossavano uniformi eritree, altri avevano uniformi etiopi, ma parlavano tigrino con accento eritreo». Il problema è che si tratta di uniformi mimetiche con colori simili che, una volta tolto lo stemma con la bandiera dalla spalla destra, sono poco facilmente distinguibili da non militari. Vi è poi la versione del governo etiope che già a novembre aveva dichiarato che il Tplf avrebbe prodotto uniformi eritree (ma il Tplf ha negato).

Più diplomaticamente il segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres ha affermato che «non ci sono prove dell’esistenza di truppe eritree all’interno dell’Etiopia». A una sua domanda diretta il premier Abiy ha risposto che i militari eritrei si trovano nell’area di territorio conteso tra i due paesi che l’Etiopia ha deciso di restituire con l’accordo di pace all’Eritrea del 2018.

Altro aspetto non propriamente chiaro sono gli aiuti umanitari. L’accordo del 2 dicembre tra Onu e governo etiope avrebbe dovuto garantire «l’accesso incondizionato all’assistenza umanitari». Ma come riportato dal portavoce dell’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati (UNHCR) Babar Baloch domenica 6 dicembre un team delle Nazioni Unite è stato colpito dalle forze etiopi e brevemente detenuto perché avrebbero cercato di forzare un terzo posto di blocco dopo averne superati due senza fermarsi.

«Questo Paese – ha dichiarato il portavoce del governo, Redwan Hussein – non è terra di nessuno. Se a qualcuno viene detto di non andare, allora si deve rispettare il divieto. Non si può ignorare un avvertimento del governo […]. L’accordo che abbiamo stipulato presuppone che l’Onu collabori con noi. Quindi abbiamo bisogno di collaborazione. Non è consentito guidare da soli, spostarsi da soli. Non esiste accesso illimitato in ogni angolo dell’Etiopia».

Redwan ha ribadito che «il 60% dell’assistenza alimentare proviene dalle casse del governo. L’ONU ha avuto accesso all’interno di un quadro di coordinamento guidato dal governo creato da una nazione sovrana». Il governo ha comunicato che 44 camion carichi di aiuti (18.200 quintali di derrate alimentari) hanno raggiunto l’8 dicembre la città di Shire per essere distribuite in tutta la regione. Anche sette camion del Comitato internazionale della Croce Rossa carichi di medicinali e attrezzature hanno raggiunto Makellé il 12 dicembre.

È stato quindi siglato, come ha spiegato il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, «un secondo accordo per missioni di valutazione congiunta (ONU – Etiopia) in relazione alle esigenze umanitarie».

La situazione dei rifugiati appare drammatica e in base a quanto dichiarato dal governo etiope molte persone dei campi Mai Ayni e Adi Harush si sono spostate ad Addis Abeba creando difficoltà di assistenza adeguata […] il governo si farà carico del ritorno in sicurezza delle persone nei rispettivi campi di provenienza». Questo ha creato un forte all’allarme nella diaspora eritrea per possibili processi di rientro forzato messi in atto dal governo etiope nei confronti di rifugiati eritrei, ma il governo ha negato. Anche UNHCR afferma di aver ricevuto diverse segnalazioni di rifugiati eritrei rimpatriati con la forza. Notizie che «se confermate costituirebbero una grave violazione del diritto internazionale» ha dichiarato l’alto commissario Filippo Grandi. C’è comunque la preoccupazione da parte dei rifugiati che nei campi del Tigray non vi sia sufficiente sicurezza.

Il governo con la chiusura dei canali di comunicazione ha deciso che l’informazione era un asse decisivo del conflitto, ma ha anche sfiduciato l’indipendenza dei media. Ora la sua voce viene posta sullo stesso piano delle altre e in assenza di controlli indipendenti possono prendere il sopravvento notizie false o artefatte.