«Quando mi domandano delle mie origini vorrei tacere. Vorrei raccontare altro, non importa cosa, inventare. mentire. Vorrei che mi si facessero altre domande, perfino assurde, ma sorprendenti. E, allo stesso tempo mi crogiolo nel mio piccolo mondo esotico e ne traggo una fierezza appagante. L’orgoglio di essere diversa».
Maryam Madjidi è nata a Teheran nel 1980, figlia di militanti comunisti che hanno lasciato l’Iran per la Francia per fuggire dalla repressione khomeinista quando lei aveva 6 anni. Con Io non sono un albero, Bompiani (pp. 176, euro 16), splendido romanzo vincitore del premio Goncourt lo scorso anno, ha cercato di riannodare i fili della propria memoria indagando il significato più profondo dell’esilio e dell’identità attraverso una lingua poetica e sognante che si configura essa stessa come un possibile, rassicurante, approdo.
La scrittrice sarà ospite domani del Festival della Mente di Sarzana con un incontro dal titolo «Le radici ritrovate» alle 12,15.

Il suo romanzo è scandito da tre «nascite»: a Teheran, Parigi e di nuovo in Iran, e da una dimensione circolare che sovrasta ogni cosa.
Si tratta di una scelta precisa che intende rivelare, attraverso una sorta di ripetizione costante, il senso di imprigionamento, di cattività che muove dalla condizione dell’esilio: qualcosa cui si è costretti, che raramente si sceglie. E la sola via d’uscita è rappresentata dalla possibilità di dare un nome a quell’esilio. Quando i miei genitori scelsero di lasciare l’Iran ero piccola, non potei decidere. Solo raccontando questa storia ho potuto appropriarmene, farla mia. La strada della libertà inizia da qui.

E lo strumento con il quale percorrerla sembra essere la lingua. Una sorta di chiave di accesso al futuro?
Anche qualcosa di più: la chiave di accesso alla propria identità. Perché né un pezzo di terra né una bandiera possono racchiudere fino in fondo ciò che siamo, ma la lingua sì, ha questo potere. Nel mio caso si è trattato prima di «conquistare» il francese quando da bambina sono arrivata a Parigi, quindi di «riapprendere» il persiano da adulta, la lingua materna che avevo pressoché perduto. Ed è attraverso questa doppia identità che sono andata definendomi, come donna e come scrittrice. Perciò, ci tengo molto a sottolinearlo: la lingua è la mia vera patria.

Il romanzo è attraversato da un paradosso: l’apprendistato alla sua nuova, obbligata, condizione di esule si compie nella «lingua dei diritti dell’uomo», il francese. Non a caso lei non sembra amare il concetto di «integrazione».
Non mi piacciono né la parola «integrazione» né «assimilazione», perché implicano che si obblighi qualcuno ad entrare a far parte di un gruppo, una realtà precostituita. Nel libro paragono l’idea dell’integrazione al lavoro di un’impresa di pulizie, nel senso che alla fine del percorso siamo costretti a dimenticare il paese da cui veniamo, una sorta di «tabula rasa» su ciò che nelle nostre vite veniva prima del nostro arrivo in Francia. Preferisco di gran lunga l’idea di «accoglienza» che contiene tutta la complessità di un incontro che si svolge tra due parti e che così va vissuto. Ed è questo concetto che oggi sembra mancare del tutto nel modo in cui sono trattati coloro che arrivano in Europa.

«Come essere francese», «come restare persiana». La storia che racconta si caratterizza per una resistenza costante al dover scegliere necessariamente un’appartenenza.
Assolutamente. Fin da bambina, in linea con quell’idea di integrazione a cui abbiamo accennato, mi sono dovuta misurare con la necessità di scegliere tra la mia «parte» francese e quella iraniana. Come se un essere umano potesse, a partire da un determinato momento magari stabilito per via amministrativa, divenire qualcosa d’altro rispetto a se stesso. Tutto ciò non ha nulla a che fare con delle ovvie regole condivise all’interno di una società, parlo invece di cultura, di biografie e identità. Si obbligano gli stranieri a diventare qualcosa di diverso, a separarsi da una parte della loro storia. Mi sembra la forma più alta che si possa concepire di rifiuto dell’altro. Al contrario io mi sento sempre francese e iraniana allo stesso tempo.

Il suo modo di essere francese e persiana è però cambiato, come indica l’evoluzione dello sguardo che rivolge all’Iran nel corso del romanzo: dalla terra della rivoluzione tradita dai Mullah dei suoi genitori, al paese in cui è tornata dopo 23 anni di esilio, scoprendo contraddizioni e un generale anelito di libertà.
Tornando a Teheran ho infranto finalmente il mito della «patria perduta», mi sono riconciliata con il sentimento dell’esilio ed ho forse per la prima volta potuto vedere davvero la realtà di quel paese. Ho visto soprattutto persone che cercano malgrado tutto di restare libere e si battono per la loro libertà. Ripeto, malgrado tutto, che significa la repressione, il potere dei religiosi, ogni sorta di imposizione fatta alle donne, la violazione sistematica dei diritti dell’uomo. Per la prima volta ho immaginato di essere cresciuta lì, invece che a Parigi. Quando sono tornata in Francia la mia rabbia contro il regime iraniano era ancora più forte ma, allo stesso tempo, ho guardato in un altro modo le giovani che a Parigi scelgono di indossare il velo, come a Teheran. Ho capito quanto le proprie origini possano rappresentare un rifugio potente.

Al Festival della Mente di Sarzana parlerà delle «radici ritrovate». Come si possono definire?
Credo si tratti prima di tutto, e forse soltanto, della memoria dell’infanzia. Niente a che fare con il nazionalismo o lo sciovinismo, bensì di uno spazio intimo, soggettivo. La bambina iraniana che sono stata, l’ho ritrovata grazie alla scrittura. Ed è andata allo stesso modo anche per tutto il resto della mia vita. È un po’ come «il tempo perduto» di Proust che in questo caso si ritrova grazie allo scrivere. Ci riconciliamo con noi stessi riabbracciando i bambini che siamo stati: l’unica appartenenza che non possiamo mai tradire.