E’ un racconto cupo e angosciante, con solo piccoli sprazzi di luce, quello di William Eugene Smith (1918-1978) fa di Pittsburgh alla fine degli anni cinquanta, in uno dei decenni economicamente più floridi della città industriale della Pennsylvania. Smith all’epoca – dopo aver collaborato con importanti riviste di allora come «Time», «Newsweek» e «Life» – decide, dopo l’ennesimo diverbio, di lasciare il lavoro su commissione per essere più libero nella ricerca del soggetto, nella scrittura e nell’impaginazione delle immagini e, non ultimo per un perfezionista, nei tempi. La corsa frenetica all’immagine sensazionale, l’ansia del rotocalco in cui le fotografie sono organizzate in sequenze troppo rapide e spesso rese con una tonalità di grigi non ottimale, cominciamo a essere vincoli per lui insostenibili.
Fino a quel momento il fotografo aveva principalmente lavorato come inviato di guerra seguendo l’esercito americano sul fronte pacifico nel terribile scontro con il Giappone. Smith fotografa il lavoro dei soldati, il dolore dei prigionieri, le distruzioni delle battaglie, e nel 1945 nell’isola di Okinawa, dove il conflitto infuria per quasi trenta giorni, rimane gravemente ferito da un colpo di mortaio. La guerra, le condizioni di sofferenza degli ultimi viste in prima persona, portano progressivamente Smith a maturare un cambiamento e a sviluppare un interesse verso le questioni sociali ed economiche. All’inizio degli anni cinquanta segue così la working class inglese e realizza un reportage sulle condizioni di povertà della Spagna: saranno due lavori fondamentali che precedono una vera e propria svolta umanistica, caratterizzata anche dalla nuova collaborazione con Magnum, che, a differenza delle altre agenzie, è gestita in forma cooperativa dagli stessi fotografi.
Da questa frattura, mentale e professionale, non più componibile, nasce il suo lavoro sulla città di Pittsburgh – forse il più denso, intimo e profondo di tutta la sua carriera – svolto in piena autonomia e con tempistiche molto dilatate, anche grazie al supporto ottenuto dalle borse di studio del Guggenheim. La mostra Ritratto di una città industriale, curata da Urs Stahel e ospitata fino al 16 settembre al MAST di Bologna, racconta proprio l’immensa ricerca di Smith sulla città a partire dal 1955 (il lavoro conta oltre 20mila negativi) attraverso una selezione di centosettanta stampe vintage provenienti dal Carnegie Museum of Art di Pittsburgh, molte delle quali poco note o difficilmente visibili. Nonostante l’alto valore visivo ed emotivo della sua ricerca, solo una piccola parte delle immagini fu infatti pubblicata mentre il fotografo era in vita sul «Photography Annual» del 1959 della rivista «Popular Photography» con il titolo Pittsburgh-Monumental Poem to a City. Il più estero reportage di Smith, la sua sfida intellettuale più elevata, si rivelarono infatti un fallimento dal punto di vista editoriale e professionale, come egli stesso ebbe candidamente modo di riconoscere negli anni successivi, quando vivrà anche in Giappone analizzando con particolare attenzione i problemi dovuti all’inquinamento causato dall’industrializzazione.
A metà degli anni cinquanta Pittsburgh è una delle città più industrializzate degli Stati Uniti e persone da tutto il mondo si trasferiscono alla ricerca di un’occupazione presso le numerose industrie siderurgiche. È una umanità sola, isolata e quasi sempre intenta a lavorare in stabilimenti di dimensione smisurata, quella ritratta da Smith, alla presa con attrezzi di metallo, macchine, grasso e con polvere che ricopre ogni angolo di corpo lasciato scoperto. Molti scatti sono realizzati di notte, mentre la città non smette mai di lavorare, poiché i tempi imposti dalla siderurgia sono a ciclo continuo. Il nero del cielo è interrotto dalle luci dei ponti e delle fabbriche, dal fumo catramoso grigio che esce dalle ciminiere: non ci sono stelle a Pittsburgh, né, di giorno, nuvole bianche che si stagliano sul cielo o uccelli che cantano sugli alberi. L’acciaio, il lavoro dominano ogni aspetto della vita, e il massimo che si possa desiderare è una nuova casa, nella collinosa periferia, un giro in auto downtown per fare due chiacchiere con gli amici.
La Pittsburgh di Smith è un luogo malinconico dove si vive per lavorare e si lavora per vivere, in cui le giornate si susseguono identiche e solo i bambini hanno, talvolta, il tempo e l’estro per sottrarsi all’unico orizzonte possibile, quello imposto dalla produzione pesante del capitalismo novecentesco. Tra le vampate del fuoco degli altiforni, le incessanti trame dei binari, le monotone e ripetitive architetture industriali, non si coglie segno alcuno di speranza, di bellezza: non c’è redenzione possibile, non c’è sogno, desiderio o utopia, poiché ogni volontà pare affogare nella macina infernale l’hic et nunc, senza alcuna prospettiva.
E così il suo bianco e nero si fa ombroso e contrastato, i toni chiari più rarefatti e sporadici. Se la luce esiste va ricercata, forse, nell’interiorità delle persone. «Era un solitario – scriverà di lui John Berger – alla ricerca di una verità che, per sua natura, non era palese. Una verità che aspettava di essere rivelata da lui e da lui solo. Voleva che le sue immagini convertissero in modo che gli spettatori riuscissero a vedere al di là delle menzogne, della vanità, delle illusioni della vita di tutti i giorni».