«È ironico che le persone che hanno lavorato insieme per rimuovere l’ad Amos Genish ora stanno lottando per contendersi il suo posto mentre la società è nel caos». L’ennesimo caos vissuto dall’azienda di telecomunicazioni più grande del paese può essere riassunta da questo commento raccolto in ambienti Vivendi, ancora azionista di maggioranza relativa con il 23,9%. Il gigante francese che aveva fatto di Telecom la testa di ponte della sua campagna d’Italia – che doveva condurre alla fusione con Mediaset – ora sono in minoranza. E osservano con transalpino stupore quanto sta accadendo nel consiglio di amministrazione in teoria controllato dal fondo americano Elliott (che ha solo l’8,84% delle azioni) e dai rappresentanti di Cassa depositi e prestiti, entrata nel capitale di Tim grazie al blitz dell’ex ministro Calenda, pare col benestare dell’allora nascente alleanza M5s-Lega.

La notizia di ieri è appunto la mancata individuazione del sostituto di Genish – che ha appena venduto 1 milione di azioni Tim in suo possesso per un controvalore di circa 520 mila euro. L’amministratore israeliano che era stato portato dai francesi di Vivendi e che – incredibilmente per le regole del capitalismo finanziario e della logica – era rimasto anche dopo il colpo di mano di Elliott e Cdp, assieme a gran parte dei piccoli azionisti che avevano conquistato la maggioranza nel consiglio di amministrazione.

DOPO LA SVALUTAZIONE di 2 miliardi decisa la settimana scorsa, i soci hanno dato il ben servito a Genish, lasciando la guida all’altro boiardo ex Enel Fulvio Conti, presidente che in questi giorni sta gestendo l’azienda.
I nomi in ballo erano due: Alfredo Altavilla – ex responsabile Emea di Fca – e Luigi Gubitosi, il cui lungo curriculum di boiardo di stato parte con la Rai e arriva all’incarico ancora in corso di commissario di Alitalia. Entrambi sono entrati nel Cda Tim – in teoria come consiglieri indipendenti – dopo il blitz di Elliott. Fino a mercoledì Altavilla era più quotato, mentre ieri pomeriggio sembrava certa la nomina di Gubitosi.

MA NEL POMERIGGIO È ARRIVATA la comunicazione ufficiale. Il comitato nomine e remunerazione di Tim, riunitosi ieri a Roma, non ha indicato nessun nome da proporre al cda di domenica per la carica di amministratore delegato del gruppo.
Rimane dunque lo stallo sull’ad e la guerra sotterranea fra Elliott e Vivendi (che con il ceo Arnaud De Puyfontaine ha smentito le voci di cessioni: «Vivendi è azionista a lungo termine di Telecom Italia e continueremo così») con effetti devastanti in Borsa. Il tutto con il governo che resta alla finestra. Le uniche parole proferite dal ministro responsabile – Luigi Di Maio dello sviluppo economico – riguardano «l’obiettivo di creare un player nazionale della connettività». Una dichiarazione che rimanda alla volontà di fondere le due reti di fibra ottica oggi esistenti: quella Tim – che è stata scorporata – e quella Open Fiber – società detenuta a metà da Enel e dalla stessa Cassa depositi e prestiti.

CABLARE IL PAESE è al momento un’impresa in perdita per entrambe le società per la difficoltà di «coprire» tutto il territorio: fonderle dovrebbe migliorare la situazione. Ma c’è da vincere la contrarietà di Vivendi e delle banche – sempre francesi (BnpParibas e SocGen) che hanno finanziato il piano Open Fiber.

FIN QUI LA SITUAZIONE fra gli azionisti. In pochi parlano dei 45mila lavoratori di Telecom che stanno pagando da anni piani manageriali fallimentari (prima quello Telco, poi Patuano, poi Catteneo) e stanno sperimentando da anni ammortizzatori sociali (contratto di solidarietà) e la spada di Damocle di vedersi rapportati ad altri attori delle Tlc italiani ed europei che hanno fette di mercato simili ma un numero di dipendenti molto più basso.

PER QUESTO I SINDACATI – Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom – hanno previsto un presidio al Mise per giovedì 22 novembre. «La situazione di totale sbando in cui versa Tim è solo la punta dell’iceberg del settore delle Tcl – si legge nella nota unitaria – . È in gioco il futuro di Tim che, nonostante le scelte scellerate di cui è stata vittima dalla sua privatizzazione ad oggi, resta uno dei driver fondamentali per lo sviluppo infrastrutturale del nostro Paese, che dà occupazione a circa 100mila dipendenti (50mila diretti ed altrettanti nel suo vasto indotto). Il silenzio e l’immobilismo di politica e istituzioni rispetto al futuro delle Tlc sono inaccettabili».