Ci sono le grandi speranze tradite degli anni novanta, le drammatiche condizioni di vita di un popolo ancora oggi costretto a chiedere ad una comunità internazionale l’attenzione che merita una grande tragedia umanitaria. Ci sono però anche molti momenti di grande dolcezza e di ironia nella carne dei ventiquattro cortometraggi presentati al NAZRA. Palestine Short Film Festival, la rassegna itinerante dedicata alla Palestina che partita da Venezia sta attraversando molte altre città italiane: Firenze, Roma, Bologna e infine Napoli, dove si chiuderà (19-21 ottobre).

Un appuntamento davvero interessante, in cui convergono non solo le opere di registi e artisti palestinesi ma anche di tutti quanti, da altri paesi, hanno voluto posare il loro sguardo sulla vita di questa terra e di questo popolo.

In questo spirito non è allora casuale che una delle opere più intense sia quella realizzata da un israeliano: High Hopes di Guy Davidi. Quindici minuti interamente costruiti utilizzando repertorio della BBC per raccontare in parallelo quante grandi promesse sono andate disattese dai tempi degli accordi di Oslo fino ai giorni nostri.

Il titolo evoca, oltre al libro di Dickens, anche una canzone dei Pink Floyd che l’hanno donata al regista consentendogli di attribuire ancora più patos alla narrazione. In mezzo a tutte queste promesse tradite ci sono i clan di profughi beduini, costretti prima a sloggiare dalla striscia di terra in cui si erano insediati dopo il ’48 e poi destinati… nei pressi di una discarica.

Guy Davidi, classe 1978, da voce alla molteplicità di persone costrette a vivere come oggetti, senza più una terra da coltivare, qualcosa a cui ancorare la propria vita. Compare perfino il corpo e la voce di Edward Said, mentre si aggira tra le macerie lasciate dalle ruspe.

High Hopes appartiene ad una delle cinque sezioni, Documentario internazionale, in cui è suddiviso il festival. Le altre sezioni sono state ribattezzate: Sperimentale, Documentario palestinese, Fiction internazionale e Fiction Palestinese.

A quest’ultima appartiene un altro corto di ragguardevole fattura: Ave Maria di Basil Khalil.

Protagonisti ne sono una coppia di israeliano che stanno riportando a casa l’anziana madre di lui. Mentre stanno passando in Cisgiordania la macchina si rompe. Vicino c’è solo un convento di suore votate al silenzio. Chi lo infrange deve espiare il peccato con 20 Ave Maria. Oltretutto, a complicare ulteriormente le cose, è il fatto che si tratta del giorno di Shabbat e l’uomo, oltre ad essere un colono è anche un ebreo ortodosso, dunque non può fare molte cose, tra cui toccare il telefono con cui potrebbe chiedere aiuto.

Nonostante la diffidenza e una certa riottosità l’uomo è obbligato dalle due donne, la moglie e la madre a chiedere aiuto alle suore.

In questo incastro, non solo di religioni, ma anche di tic, di modi di fare ed anche di reciproche incomprensioni ne viene fuori un gioco degli equivoci in alcuni momenti davvero molto divertente. Sullo sfondo c’è poi quel deserto che vira in seppia tutta la fotografia, sgranando l’immagine, contaminandone la carne e ricordandosi che in fondo siamo in terra palestinese.

One Minute della kuwaitiana Dina Naser (produzione giordano-belga) ci trasporta invece nuovamente nel pieno del dramma attuale dei palestinesi. A differenza del film di Davidi lo fa però utilizzando il linguaggio del cinema, la sua potenza evocativa. Quasi interamente girato al buio, in una notte di bombardamenti a Gaza, mentre una madre cerca di calmare il proprio bambino. Fuori i rumori mettono sempre più paura. Tutto ciò si tinge di assurdo quando il telefono si illumina per una informazione surreale: l’esercito israeliano concede 5 minuti per evacuare il palazzo prima che venga raso al suolo. Piccole delicatezze prima dei bombardamenti mirati. I quali ovviamente si riveleranno una volta di più tutt’altro che infallibili, lasciando altre macerie, altre morti.

One minute è una sorta di scatola sonora in cui ogni sussurro, ogni respiro, ogni suono si impregna di un’emotività febbrile, nell’attesa snervante di una qualcosa che purtroppo già si conosce.

Non mancano opere curiose, eccentriche, come The Bus Trip, in cui l’animazione si ibrida con la realtà per raccontare del viaggio nei territori occupati, in bus appunto, di una giovane ragazza.

Madame El di Laila Bass, forse il cortometraggio più sofisticato, ci racconta un’altra Palestina attraverso gli occhi di due bambini pagati per recuperare oggetti antichi e di valore dentro le grotte alle porte del loro villaggio. Vittime di un avido committente, una volta recuperata una statua che sembra essere preziosa, un’immagine sacra raffigurante la Gran madre, moglie della divinità El, si apre una sorta di guerriglia. Una volta scoperto che il committente li vuole sfruttare accaparrandosi la statua, i fanciulli decidono di rivolgersi ai responsabili civili e religiosi del villaggio e qui il lavoro prende una piega ironica inaspettata: mentre questi litigano per il modo in cui impiegare il compenso che risulterebbe dalla vendita (l’illuminazione nella sala del consiglio o dare la precedenza a necessità religiose?) i due ragazzi si azzuffano ma poi approfittando dell’incapacità dei saggi di decidere, mentre essi stanno pregando per venire a capo della vicenda, decidono di sottrarre la statua.

To my mother di Ahmad Al-Bazz e Yaser Jodallah ci riporta all’epoca della seconda intifada per raccontare la morte del fratello Ahmad, della strada scelta da molti suoi fratelli di entrare nella resistenza armata, infine, ovviamente della madre, la quale si immola per salvare uno dei suoi figli dai soldati israeliani. Yaser sceglie una strada diversa, si iscrive all’università, e si convince che “l’unico modo per avere una grande nazione è restare uniti”.

Questo breve documentario dedicato alla madre, è una sorta di album familiare, corroborato da toccanti testimonianze come quella del padre e del fratello sfuggito alla morte. La storia di una famiglia simile a tante, devastata dagli scontri del suo paese.