Ha generato entusiasmo la presa di posizione di Matteo Renzi sull’Ilva di Taranto: «Stiamo valutando se intervenire sull’Ilva con un soggetto pubblico: rimetterla in sesto per 2-3 anni, difendere l’occupazione, tutelare l’ambiente e rilanciarla sul mercato», ha detto il premier nell’intervista pubblicata sabato su Repubblica. «Una strada utile – ha commentato la leader Cgil Susanna Camusso – ma bisogna vederla concretamente perché Ilva è un complesso progetto di recupero ambientale oltre che di rilancio industriale. Almeno su questo Renzi ci ha ascoltato».

Quella del premier è tutt’altro che un’accelerata improvvisa. Visto che l’azienda, dopo aver ottenuto la seconda tranche di 125 milioni di euro del prestito concordato lo scorso settembre con gli istituti di credito (Unicredit, Intesa San Paolo e Banco Popolare), grazie al quale saranno pagati gli stipendi di novembre, il premio di produzione e le tredicesime, da gennaio rischia di andare in default. L’Ilva ogni mese perde infatti una cifra vicina ai 25 milioni di euro e ha accumulato debiti nei confronti dei fornitori per 350 milioni. Altri 50 quelli contratti con le aziende dell’indotto e dell’appalto. E deve far fronte a un piano di risanamento ambientale che ammonta a non meno di due miliardi di euro. Una voragine dentro la quale rischia di sprofondare la più imponente azienda italiana, nonché il siderurgico più grande d’Europa. In attesa che si concluda il processo per disastro ambientale portato avanti dalla Procura di Taranto, all’interno del quale sono state presentate richieste di risarcimento per oltre 30 miliardi di euro.

L’accelerata del premier è dovuta anche al fatto che l’offerta non vincolante presentata dal gruppo franco-indiano ArcelorMittal la scorsa settimana, ha confermato i paletti che da tempo hanno posto tutti i possibili acquirenti: ovvero la non disponibilità ad accollarsi i debiti pregressi e gli oneri derivanti dai vari interventi previsti dal piano ambientale. Per questo il commissario Piero Gnudi e il governo hanno chiesto ed ottenuto dalla procura di Milano lo sblocco, secondo quanto previsto dalla legge Terra dei Fuochi, di parte del «tesoro» offshore dei Riva: 1,2 miliardi di euro. Sblocco sul quale però pesa sia il ricorso in Cassazione presentato dai legali di Adriano Riva, sia l’oggettiva difficoltà di recuperare dei fondi intestati a otto trust nell’isola di Jersey e depositati nelle casse delle banche svizzere Ubs e Aletti del gruppo Banco Popolare.

Un ginepraio, quello dell’Ilva, quasi inestricabile. Per questo, la strada individuata dal governo, prevede l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, prevista dalla legge Marzano. Ma il decreto previsto ieri in Consiglio dei ministri non è stato annunciato.

La legge Marzano però è applicabile in presenza di aziende in stato d’insolvenza: non è il caso dell’Ilva. Almeno per il momento. Visto che secondo fonti ben informate, lo scorso 26 luglio alcune ditte dell’indotto e alcune società fornitrici del siderurgico, hanno depositato ricorsi per ingiunzione per mancato pagamento di svariate fatture. Una strada che porterebbe l’azienda direttamente al fallimento qualora il contenzioso giudiziario non venisse risolto.

A questo punto, l’idea da tempo in cantiere, sarebbe quella di seguire la via scelta per salvare Alitalia. Rendere l’attuale Ilva spa una bad company nella quale confinare le cause ambientali e giudiziarie. E l’eventuale risarcimento danni in tema di bonifiche e nei confronti di enti e terzi coinvolti. Nella new company dovrebbero confluire invece le aziende del gruppo (oltre a Taranto, Genova e Novi Ligure), i 16.200 dipendenti diretti e i debiti riguardanti la sola attività produttiva.

Nella new.co, secondo l’idea del governo, dovrebbe entrare anche la Cassa Depositi e Prestiti (custode dei risparmi postali di milioni di italiani) attraverso il Fondo Strategico, holding di partecipazioni controllata all’80% dalla stessa Cdp e al 20% dalla Banca d’Italia. Che acquisisce quote di minoranza di imprese di rilevante interesse nazionale in situazione di equilibrio economico, finanziario e patrimoniale e che abbiano adeguate prospettive di redditività e di sviluppo.

In tutto ciò, in pochi paiono fare i conti con i due fattori più importanti. Il primo: l’Ilva è ancora di proprietà del gruppo Riva che detiene l’87% delle azioni. Il secondo: la vita e la salute dei tarantini. Che rischiano di non avere giustizia e risarcimenti. Oltre al concreto rischio di continuare ad ammalarsi e a morire.