Dunque il parlamento europeo, organismo eletto a suffragio universale, ha finalmente battuto un colpo, questa volta di natura politica, contro l’Ungheria di Victor Orban, stabilendo con ampia maggioranza che nell’Unione non è consentito fare carta straccia dello stato di diritto. Forse l’“onda nera” dei nazionalismi comincia a preoccupare davvero.

In realtà ad abbattersi sulle estenuate democrazie del Vecchio continente sono stati almeno due frangenti. L’uno proveniente dall’Est, l’altro dall’Ovest. Hanno destato allarme e stupore i sondaggi che incoronano l’Afd, la formazione nazionalista e xenofoba tedesca, primo partito nei Laender della ex Rdt. Il fatto è che quelle regioni, nonostante l’Anschluss del 1990, condividono non poco della propria esperienza con gli altri paesi già appartenuti al blocco sovietico, perfino in forme ancora più gravose. Non vi è dunque troppo da stupirsi se vi circolino stati d’animo non dissimili da quelli che attraversano i paesi del cosiddetto gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia).

Al miraggio del libero consumo, prima ancora che del libero mercato, avrebbe fatto seguito un apprendistato piuttosto duro, una condizione di disorientamento divisa tra la vendetta contro il passato e il timore nei confronti di un futuro fuori da ogni reale possibilità di controllo. I professorini dell’economia di mercato, i demolitori del vecchio Welfare, i maghi delle privatizzazioni, volendo bloccare sul nascere ogni transizione democratica favorevole ai più svantaggiati, non avevano che la “patria” da offrire a quelli che di fatto sarebbero diventati cittadini di serie B, scolaretti da ricondurre a una nuova disciplina. Il capitale occidentale in tutto l’Est non agì in maniera differente, sebbene più prudente e indiretta. Insomma qualche sacrificio per il bene della patrie convertite al liberismo bisognava pur farlo.

La pozione velenosa fu somministrata con successo e le frustrazioni dirottate verso lo spauracchio dell’immigrazione e di una “élite cosmopolita” identificata esclusivamente nelle deboli istanze politiche sovranazionali, ma ben guardandosi dall’urtare la suscettibilità dei grandi capitali multinazionali di cui con ogni mezzo si cercava e si cerca il favore. Questa combinazione non poteva che condurre a una generale ripresa del nazionalismo e della retorica patriottica con l’evidente connotato patriarcale che anche etimologicamente la pervade.

Che questa evoluzione dovesse entrare in rotta di collisione con lo “stato di diritto”, peraltro logorato dalle diseguaglianze crescenti e dalle “politiche di emergenza” che si sono susseguite senza tregua in tutta Europa, era una circostanza facilmente prevedibile. L’Ungheria di Orban e le altre “democrazie illiberali” dell’est non sono il prodotto di un oscuro subconscio continentale, ma di ben precise scelte politiche volte a garantire il processo di accumulazione e il controllo occidentale sul disfacimento del blocco sovietico. Così, nonostante la condanna del parlamento europeo non sarà facile mandare sotto processo l’uomo forte di Budapest e perfino metterlo alla porta del Ppe, maggioranza conservatrice e ufficialmente europeista nel parlamento di Strasburgo. Le reazioni delle “democrazie illiberali” non si faranno attendere.

Come gli umori nazionalisti dei Laender dell’est si riflettono sugli equilibri politici dell’intera Germania (il potere di ricatto del ministro degli interni Seehofer sulla coalizione di governo lo testimonia sufficientemente), così il nazionalismo ungherese, polacco, ceco, riverbera sull’assetto politico dell’Unione.

Ma veniamo al secondo frangente. Quello che ad est ha prodotto l’apprendistato al libero mercato, ad ovest è stato opera della grande crisi dei debiti sovrani.

Soprattutto le più indebitate economie meridionali si sono ritrovate in una condizione analoga a quella dei cittadini della ex Ddr. Anche qui si trattava di tornare sui banchi di scuola per imparare la dura disciplina del risparmio e della sobrietà e anche qui bisognava farlo senza alterare gerarchie sociali, rendite e profitti, salvaguardando la sacra legge della concorrenza e dislocando dunque fuori dalla “patria” le cause di ogni male.

Il nazionalismo nordico si fondava invece sulla difesa della rendita dai “parassiti” del sud, dai cosiddetti “turisti del Welfare” e sulla salvaguardia della propria posizione di mercato. Sospingendo a sua volta fuori dai confini nazionali e dal proprio modello di sviluppo contraddizioni e disagio sociale. In questi elementi di conflitto risiede quell’inconsistenza dell’alleanza puramente ideologica tra nazionalismi che, nella sostanza, coltiva il germe della guerra di tutti contro tutti. Come si può agevolmente constatare non appena sul tappeto vi siano questioni concrete. A partire dalle politiche contro l’immigrazione che tutti sembrano accomunare e che invece tutti dividono. Insomma, la “fortezza Europa” va prendendo la forma di un ancor più soffocante mosaico di singoli fortilizi.

A completare un quadro già fosco l’interesse dell’America di Donald Trump e della Russia di Putin a utilizzare la leva nazionalista per disgregare l’Unione europea, minarne la forza economica e cancellarne le potenzialità politiche. Piluccando tra le miserie delle redivive sovranità nazionali in competizione fra loro.

L’“onda nera” si regge su un castello di menzogne e di false promesse, nonché sul sostanziale antieuropeismo degli europeisti al potere prigionieri delle proprie priorità nazionali.