Con Blue Ruin, presentato alla Quinzaine des realisateurs qualche anno fa, Jeremy Saulnier è diventato un beniamino della nòvissima cinefilia. Dotato di uno sguardo non banale, e di un approccio non convenzionale nei confronti dei generi che affronta, il giovanissimo regista statunitense era atteso sulla Croisette al varco della nuova prova con grande curiosità. L’incipit del nuovo film – Green room – è quasi geniale. Uno sguardo assonato riprende coscienza sommerso dal verde. «Merda…». Stacco. Una ripresa dall’alto mostra un Suv arenato in un campo di grano. La scia di una frenata disperata racconta cosa è accaduto. In una manciata di secondi Saulnier ci fionda nel suo film. Una precisione degna dei grandi del passato, si direbbe.

Ed è questo tipo di scelte, di sguardo, che fanno di Saulnier un cineasta non banale. I passeggeri del Suv sono gli Ain’t Rights (i Non-giusti, in italiano), band hardcore punk che si sbatte di concerto in concerto nel cuore del Nord-Ovest del Pacifico. Il concerto che ha organizzato per loro un entusiasta di provincia con tanto di cresta stile Wattie degli Exploited si rivela un buco nell’acqua. Lui, per farsi perdonare, gli consiglia di andare a suonare in un locale poco lontano, bazzicato da suo cugino. C’è un ma, però. Il posto è frequentato da skinhead. Uno della band, che indossa una t-shirt dei Minor Threat, chiede che «tipo» di skinhead frequenti il locale.

Il punk aspirante promoter li rassicura: gente felice di menare, con delle idee strane, ma tutto sommato tranquilli. Ovviamente, appena messo piede nel camerino, «andate su in 20 minuti!» è il benvenuto di uno dei gestori del locale, è subito chiaro che l’aria è pesante. Adesivi inneggianti al White Power (Potere bianco) in bella evidenza sugli armadietti. Croci uncinate, inni alla nazione ariana e variazioni sul tema ovunque. E quei pochi adesivi inneggianti all’anti-razzismo sembrano essere messi a bella posta tanto per rassicurare. E qui Saulnier piazza il secondo colpaccio del film. Colpaccio che per un attimo fa battere più forte il cuore. I Non-giusti, mai stati meno giusti di così, aprono il concerto con una cover al fulmicotone di Nazi Punks Fuck Off dei Dead Kennedys. Finito il concerto, l’incubo. Una morta nel camerino e testimoni da far scomparire.

Abbandonando lo studio ambientale per operare una variazione intorno ai temi di Distretto 13: le brigate della morte di John Carpenter, si rivela in realtà una sfida al di là delle possibilità del pur volenteroso Saulnier. Chiusi in pochi lerci metri quadrati, circondati da skin armati fino ai denti, si trovano a dovere lottare per ogni centimetro. Il film, non è poco, non abbandona mai la presa. Il ritmo è tiratissimo, eppure non si può fare a meno di notare che, nonostante l’intrigante premessa, si scivola fatalmente nei territori più convenzionali del genere. Più interessante, il conflitto fra la skinhead non nazista di provincia (una convincente Imogen Potts) e il resto della band intrappolata. Due mondi e due modi di vivere la musica e la cultura veicolata agli opposti; mondi che raccontano di classi sociali apparentemente scomparse, messe in scena come segni e appartenenza tribale.

La gag riguardante la band da isola deserta, rivelante impensabili scheletri musicali negli armadi dei punk duri e puri (Imogen Potts rivela di amare Madonna e gli Slayer), aggiunge una nota di umorismo che fa il paio con la presenza inquietante di un Patrick Stewart, neonazista dedito allo spaccio di eroina, in uno di quei ruoli che hanno fatto la fortuna di Stacy Keach (cfr. American History X). Jeremy Saulnier con Green Room convince pur senza… convincere del tutto. Gli manca al momento lo scarto inatteso di un Ben Wheatley che separa il manierista dal visionario.