Il patto non piange e la ferita dell’elezione del presidente della Repubblica senza il voto di Silvio Berlusconi (ma con quello di molti dei suoi) si è rimarginata subito. «Lasciamogli qualche giorno», dicevano in effetti nel cerchio stretto renziano mentre ancora si contavano i voti per Mattarella, e di giorni ne sono serviti solo due. Per Berlusconi, le buone notizie di ieri hanno certo aiutato. E non tanto l’accoglienza oggi alla cerimonia al Quirinale – ai capi partito non sono mai mancati gli inviti per l’insediamento del presidente della Repubblica – quanto per la decisione del tribunale di sorveglianza di scontargli la pena: misura prevista, ma per la quale la procura di Milano aveva dato parere contrario. Un’umiliazione in meno, per l’ex Cavaliere costretto a tenersi avvinghiato al patto che lo lega con Renzi. Ma l’interesse è reciproco.

Eletto il presidente, ci pensa direttamente il premier a fischiare la fine della ricreazione. Non basta che i suoi più intimi – Delrio e Guerini – si diffondano in interviste per spiegare che non esiste alcun «metodo Quirinale», e che su Italicum e riforma costituzionale l’intesa privilegiata resta quella con Berlusconi. Un’intesa che serve a condannare all’irrilevanza la sinistra del Pd e a maggior ragione l’opposizione di Sel, due schieramenti che invece su Mattarella si sono ritrovati. Renzi interviene perché sente troppa esultanza alla sua sinistra. Non gli è piaciuto che Bersani e altri bersaniani siano corsi ad affidarsi al neo presidente immaginando che sarà adesso il Colle a correggere e frenare i piani di Renzi. «Evitiamo di mettere in mezzo questo e il precedente capo dello stato», dice il premier. «Non è che Napolitano fosse meno rigoroso di Mattarella», aggiunge, svelando facilmente le contraddizioni dei bersaniani (che di Napolitano hanno solo e sempre tessuto elogi).

«L’elezione del presidente mette il turbo alle riforme», dice in un’intervista radiofonica Renzi, assicurando un’accelerazione da supercar per legge elettorale e revisione costituzionale. E non solo, visto che per chiarire il concetto a fine giornata recapita una stringata letterina a tutti gli iscritti del Pd, quasi un bollettino del trionfo. «Costituzione, legge elettorale, fisco, giustizia, pubblica amministrazione, terzo settore, diritti civili, ius soli, lavoro, libro bianco della difesa, Rai, cultura fino ad arrivare al grande tema della scuola e dell’educazione che sono per me il punto centrale del Pd. Andiamo avanti con ancora maggiore determinazione». Discorso fatto agli iscritti perché intendano i dirigenti, specie quelli della minoranza del partito che hanno chiesto una pausa nella corsa del disegno di legge di revisione costituzionale, che si era fermato prima della convocazione dei grandi elettori quando stava per entrare nel vivo del Titolo V della Costituzione e poi del funzionamento del nuovo senato. Niente da fare, Renzi governa anche sul parlamento ed è lui a informare che nella conferenza dei capigruppo convocata a Montecitorio subito dopo la fine della cerimonia con Mattarella, oggi alle 15.00, si deciderà di proseguire l’esame della riforma. E forse di assegnare già in prima commissione la legge elettorale appena arrivata dal senato.

«Non abbiamo voluto unire il Pd usando Mattarella», insiste a sera in televisione Delrio. L’unità del partito democratico costringerebbe infatti a rivedere le cosiddette riforme, così come portate avanti fin qui con Berlusconi. Alla legge elettorale andrebbero sfilati i cento capilista bloccati per i primi partiti, quelli che nell’attuale Italicum confermano una prevalenza di deputati non scelti dagli elettori. Non che a palazzo Chigi si maltrattino solo quelli del Pd. «Chi deve leccarsi le ferite lo faccia, non perdo tempo con i partitini», insiste Renzi avendocela evidentemente con Alfano e il suo Ncd. Tanto che dal ministro Lupi arriva una assertiva protesta: «Non siamo il tappetino di Renzi».

Eppure l’accordo con Berlusconi non si ferma alle questioni istituzionali. Attesissimo il consiglio dei ministri del prossimo 20 febbraio nel quale il governo deve decidere se confermare la norma che rende non punibile un’evasione delle imposte inferiore al 3% dell’imponibile. Sconto penale che sembra fatto apposta per Berlusconi, e che Renzi – come prima di lui Boschi – ha lasciato intendere che resterà: «Stiamo valutando, verificando, vedremo se cambiarla e come, Berlusconi non c’entra niente ma bisogna distinguere gli evasori da chi fa errori in buona fede».