Madre frustrata? Madre assassina? Madre castrante? Chi lo sa… Quale sarò io? Oggi è bigio. Ho riposato. Ieri sera ho occupato la Casa Affollata come fosse mia e vi abitassi da sola: cenetta veloce in cucina (primo pasto reale in tre giorni), sigaretta digestiva in terrazzo (con inevitabile, e di soddisfazione, origliamento delle conversazioni di due signori sul terrazzo del piano di sopra), denti e ninna alle undici, come una pupa. Messi i tappi non ho sentito più niente della bolgia che tornava a casa, usava a turno il bagno, chiacchierava e infine dormiva. Stamattina i sogni si mischiano alle immagini dei quindici film visti fino a adesso: nuoto in mare aperto e mio marito in barca non si ferma a prendermi con sé, cerco di mantenere la calma e nuoto a dorso per non stancarmi; Tzvia (Shani Klein, protagonista di Mountain, opera prima di Yaelle Kaya) accanto al coniuge assopito ansima nel letto dopo la corsa tra le tombe per sfuggire ai delinquenti, uno dei quali le bussa alla finestra terrorizzandola ancor di più; Marguerite (una splendente Catherine Frot protagonista che da il nome al film di Xavier Giannoli) che ascolta la sua voce registrata per la prima volta e scopre di essere stata stonata tutta la vita senza che nessuno glielo abbia mai detto; libri che cadono e diventano altri…

E ancora donne che attendono, che soffrono ma cercano di continuare a vivere, donne che compiono scelte fatali… Ci sono rimandi nei film e rimandi nella vita: difficile non ripensare a propri fatti, a ricordi, a episodi mancati. Ricordo notti veneziane di attese alla fermata del vaporetto (che di sicuro in gergo veneziano si dice in un modo preciso che non è fermata, ma che io ignoro oppure scopro ogni volta e poi cancello dalla memoria appena torno a metter piede sulla terraferma) per ore a chiacchierare con gli sconosciuti, ad attendere per minuti che si avvicinavano ad ore e che sembravano notti intere, navigazioni notturne nel buio vero, quello che da bambini si vedeva solo al mare, uniche le luci dei palazzi lontani e le stelle e le poche imbarcazioni incrociate; poi una volta qualcuno così ubriaco vomitava nella parte esterna e finivamo noi, pochi pazzi a frequentare la mostra del cinema pernottando sulla terraferma, a dover andare sottocoperta, dove soffro il mal di mare ma piuttosto che sentire l’odore ripugnante preferivo dondolare da basso in allegra compagnia.

E la fame di cinema è infinita e si auto-rigenera come una fenice che non diventa mai cenere: nella Casa Affollata una notte, non paghe, ci vediamo un film al computer (è uno dei film del festival, di cui non dovremmo avere il link vimeo ma, devo ammetterlo, ce lo abbiamo: che nessuno ci sbugiardi, però, please). Siamo tre donne, le più «mature». L’audio è basso, si sente poco, stiamo in totale silenzio. Uno a uno rientrano gli altri conviventi. Tutti passano, ci prendono per pazze e vanno in bagno (!). Qualcuno ci deride. Colui a cui stiamo occupando il tappeto, dove lui pone il suo sacco a pelo, batte il piedino e ci disprezza, respirandoci alle spalle. Ad un tratto dichiaro di capire poco un’azione che si sta svolgendo sul mini schermo. La Ricciolona: «Vuoi che ti giro il monitor?». «No, mi sa che vado un attimo a prendere gli occhiali». La cosa ha suscitato ilarità, ma sono solo astigmatica non cieca. Per fortuna il film era breve, lo abbiamo visto tutto, fino alla fine. Nemmeno sotto tortura dirò il titolo.