Dalle cancellerie il silenzio è tombale. Tace l’Europa dei palazzi, mentre le immagini della strage dei 130 in Libia rimbalzano da un continente all’altro. Sei anni sono trascorsi dalla foto shock che scosse il mondo: quella del piccolo Alan Kurdi, il bimbo siriano di tre anni appena, riverso col viso poggiato sulla sabbia della spiaggia di Bodrum, in Turchia. Uno strazio. Sembrava che quell’istantanea potesse stravolgere le agende dei governi. Macché. Di immagini di morti galleggianti nel Mediterraneo ce ne sono state tante, l’inerzia e i terribili silenzi dell’Ue sono rimasti tali.

MA A «FERIRE LA COSCIENZA umana e cristiana», accusa il vescovo di Palermo Corrado Lorefice all’indomani della tragedia, «non è solo l’assoluta indifferenza in cui tutto questo è avvenuto», ma «è anche e soprattutto il grave rimpallo di responsabilità tra la Libia, Malta, l’Italia e Ue». Già. Perché la guardia costiera libica non ci sta a essere accusata di avere ignorato un Sos in mare lasciando annegare i naufraghi, come denunciato dall’Oim, secondo cui «gli Stati sono rimasti inerti e si sono rifiutati di agire».

Attraverso un portavoce, i libici assicurano di aver fatto tutto il possibile per salvare quelle vite. Ma con sole due motovedette funzionanti e tre allarmi scattati contemporaneamente mentre il mare era in burrasca – è la versione di Tripoli – non hanno potuto sventare la strage. Cui potrebbe aggiungersene un’altra: un gommone con una quarantina di persone risulta scomparso.

Per l’Oim si tratta del più tragico naufragio avvenuto quest’anno nel Mediterraneo centrale, con la nave Ocean Viking dell’ong Sos Mediterranée che non è arrivata in tempo a salvarli. Anche il numero di emergenza Alarm Phone ha sostenuto che «tutte le autorità consapevolmente li hanno lasciati morire in mare». «È assolutamente falso – ha replicato il portavoce della Marina libica, Massoud Abdelsamad – Siamo intervenuti nonostante le pessime condizioni meteo, ma c’erano forti venti e onde alte che rendevano quasi impossibile compiere salvataggi.

«Al momento abbiamo disponibili solo due motovedette», ha ricordato Massoud, ma «quel giorno avevamo tre casi: uno al confine con la Tunisia e due, compreso quello tragico, al largo di Khoms». Pare che delle sei motovedette a disposizione della guardia costiera di Tripoli, una ha un guasto e altre tre sono in Italia per riparazioni. Non ci sta il vescovo di Palermo.

«IL LUNGO TEMPOREGGIARE sull’obbligo del soccorso e l’accavallarsi confuso delle giustificazioni sul perché non si sia fatto nulla per precipitarsi a salvare 130 persone in evidente pericolo continuano purtroppo a dimostrarci che non è più possibile che si ritardi nella ricerca di una soluzione politica a livello europeo umanamente sostenibile, che ponga fine una volta per tutte a questa straziante barbarie». «Basti guardare in questi mesi al Congo e al North Kiwu per capirlo.

Ebbene, di fronte a questa ingiustizia sistematica – incalza Corrado Lorefice – noi europei, invece di sentire l’obbligo di un risarcimento, chiudiamo le frontiere del nostro benessere grondante del sangue dei poveri, per impedire ad altri il diritto a un’esistenza che non sia svuotata di dignità. Tutto questo è scandaloso. Ci perdonino tutti coloro che hanno perso la vita in questi anni e ci infondano il coraggio di cambiare, insieme».

DURO ANCHE IL COMMENTO delle Acli. «Finché non si assume finalmente il concetto che il fenomeno migratorio è un dato di fatto e non un capriccio; finché l’Europa continua a inseguire la politica dell’esternalizzazione, rimanendo ostaggio economico e politico di Paesi che non rispettano i più elementari diritti umani; finché si ringraziano i libici per i salvataggi in mare anziché disconoscerli per la violenza ampiamente documentata; finché si preferisce criminalizzare le ong impegnate in missioni di salvataggio anziché apprezzarle perché sono le uniche a rispettare la legge del mare, i morti aumenteranno».

LA COMUNITÀ DI SANT’EGIDIO ha promosso per domani in Italia e in tutta Europa numerose veglie di preghiera in memoria delle vittime. E chiede all’Ue «di riattivare con urgenza una rete di salvataggio in mare, rapida ed efficiente, così come lo impone il diritto internazionale per non dover rispondere in futuro, oltre che alla propria coscienza, anche a reati di omissione di soccorso».