Il teatro e il carcere sono andati stringendo negli ultimi trent’anni un rapporto sempre più stretto, e incredibilmente coinvolgente. Soprattutto in Italia, anche se non si può dimenticare che Samuel Beckett in persona allestì il suo Aspettando Godot con Rick Cluchey nel penitenziario di San Quintino. Da noi è Armando Punzo che da più di trent’anni guida quell’esperienza particolare, mantenendo il luogo e il perno del suo fare teatro tra i bastioni della Fortezza medicea di Volterra, che conserva la sua imponenza temibile anche ora che non ospita più reparti di alta sicurezza. Poi ci sono moltissime altre esperienze che in tutta Italia coniugano teatro e carcere, alcune anche di notevole livello (Gianfranco Pedullà, per fare un solo nome), ma certo la perseveranza e la fama, anche internazionale, consentono alla Compagnia della Fortezza e a Punzo possibilità espressive da fare invidia a molte istituzioni stabili «di fuori» che agiscono in libertà fin troppo incondizionata.

TUTTO QUESTO viene in mente ora, a vedere l’ultima creazione della compagnia volterrana. Un vero kolossal con un ensemble numerosissimo (forse il triplo degli spettatori falcidiati invece dalle misure anti Covid, e perciò ridotti a 25 per recita), e immagini fantastiche, degne davvero di un kolossal di quelli cinematografici. Lo spettacolo visto in carcere nei giorni scorsi ha per titolo Naturae, La vita mancata, 1° quadro. Il secondo quadro, Naturae, La valle dell’innocenza avrà luogo il prossimo sabato 8 e domenica 9, con doppia rappresentazione alle 17,30 e alle 21,30 in un luogo quasi altrettanto eclatante, il Padiglione Nervi della ex Salina di Stato giù a valle di Volterra, dove il sale costituirà un altro mirabolante elemento teatrale (prenotazione obbligatoria sul sito compagniadellafortezza.org).

Il completamento definitivo del progetto è previsto per l’estate del prossimo anno.
A questo progetto colossale Punzo è arrivato per tappe successive, che lo hanno in qualche modo liberato (e allo stesso tempo messo nella condizione) dal confronto con la scrittura dei «patriarchi» della pagina letteraria. Dopo le perlustrazioni elaborate, tra i molti, su Brecht, Pasolini, Genet, gli ultimi quattro anni la compagnia della Fortezza li ha dedicati, due ciascuno, a Shakespeare e Genet, presi a padri fondatori del teatro l’uno e della scrittura l’altro. Ma seguendo un filo coerente, l’artista grida ora di essere consapevole di poter sfidare il racconto della Genesi: il bene si rovescia nel male e tutto da cercare, lontano dalla morale dominante, è l’uomo nuovo, la vera missione umana e umanitaria.

Detto così può sembrare un espediente retorico, invece Punzo, forse anche perché ormai, o finalmente, affrancato dalla gabbia, pesante per quanto aurea, di quelle scritture, può dar corpo in tutta libertà alle visioni maturate con i suoi compagni di lavoro. E lo spettacolo è davvero stupefacente. Con degli aiuti fondamentali, da citare non per puro dovere di locandina: Andrea Salvadori che suona dal vivo una partitura polistrumentale su cui vivono le immagini, Alessandro Marzetti per le scenografie che sospendono la vista e il respiro, Emanuela Dall’Aglio per i costumi mirabolanti, antichi o futuribili, destinati a rimanere nell’inconscio dello spettatore. Mentre Cinzia De Felice riesce a tenere le molte fila dell’insieme. E poi ci sono loro, quella settantina di detenuti/attori (quattro sole presenze femminili esterne) che danno corpo e visionarietà a quella difficile sfida alla morale corrente.

GLI ATTORI appaiono consapevoli del grande rito che vanno a officiare, quelli tesi nei loro corpi torniti e palestrati sotto candidi strati di biacca o lucidati di nero, e quelli intenti alle arti manuali della tornitura e levigatura di statue. Antiche mitologie rivivono nel tentativo di fuga liberatoria dell’uomo tenuto imprigionato da fili robusti che pure paiono semplice garza. Enormi prelati cappelluti di rosso infuocato, piccoli pupazzetti ai piedi degli spettatori, e perfino la mela tentatrice dell’Eden che pure chiede il permesso di agire e indicare il «peccato». Dal torace ferito di un uomo escono rivoli di sangue precisi come corde di filo animato. La vittima sorride, sotto il suo ombrellino anch’esso rosso come il sangue.

DEI VELIERI sono copricapo di altri uomini dai preziosi mantelli: i volti dei detenuti/attori trasfigurano in quelli di mistici sacerdoti tra passato e futuro. Insomma una grande festa per l’occhio, dove cuore e mente si affannano a trovare il bandolo della missione quasi impossibile. Rovesciare i valori? Ogni spettatore, nel carosello della memoria, potrà dedicarsi a verificare quella ricerca.