Un generale che abbandona, una protesta contro il controllo e la richiesta di applicare il buonsenso verso gli alleati: l’America discute e si interroga sul peso, mondiale, dello scandalo Datagate, tra richieste di riforma, tentativi di rassicurazione e proteste.
Il «cowboy della Nsa», ovvero il Generale Keith Alexander, ha annunciato la fine del proprio impero sui sistemi di sicurezza più imponenti al mondo: dal marzo del 2014 lascerà l’incarico di direttore. L’ha comunicato da militare, senza particolare animosità, anche se a detta dei suoi più vicini collaboratori sarebbe inviperito a causa della scarsa protezione che gli avrebbe garantito la Casa Bianca, a seguito dello scoppio dello scandalo Datagate. La sua dipartita – e la sua sostituzione, uno dei punti attraverso i quali leggere l’eventuale riforma della Nsa da parte di Obama – potrebbe essere il primo regalo che l’amministrazione Usa cerca di dare al resto del mondo, almeno come segnale. Francia e Germania, a seguito delle ultime rivelazioni, si sono mostrate stupite prima e innervosite poi. Un editoriale del New York Times, ha infatti richiesto a Obama di applicare, al più presto, il buonsenso per non peggiorare la situazione con quelli che rimangono «alleati».
Il generale Alexander è colui che ha piegato la Nsa ai suoi voleri e alla sua fame di dati. Stando a quanto affermato da un suo ex sottoposto, Alexander aveva la stessa mira di Google: «dati, tanti, subito, in tempo reale», a testimoniare come nell’epoca della sorveglianza globale, sia coatta contro il terrorismo, sia volontaria per il marketing, apparati di sicurezza e multinazionali siano sempre più simili nel proprio agire.
E proprio questa preponderanza militare nell’uso dei dati, che ha di fatto stracciato le competenze della Cia, costituisce il trait d’union dell’ondata di leaks che negli ultimi anni hanno investito le amministrazioni americane. Da Wikileaks a Snowden, infatti, la trama contraria ai segreti di stato e alla raccolta indiscriminata di dati e favorevole invece alla loro pubblicazione (con un rigoroso controllo delle fonti e delle opportunità, come dimostra il tempo passato tra l’arrivo dei dati della Nsa e la loro prima pubblicazione) è netta. Quando Edward Snowden ha registrato il video da Hong Kong e di essere lui la fonte di tutto lo scandalo da poco rivelato da Guardian e Washington Post, a riprenderlo c’era Laura Poitras. Non una videomaker qualunque, bensì quella che lo stesso Glenn Greenwald, il giornalista che ha curato i materiali, gestito mediaticamente lo scandalo, ha definito «la Keiser Soze» (nome del personaggio principale del film «I soliti sospetti» ndr) dell’intera operazione, perché «ubiqua e invisibile allo stesso tempo». La Poitras lavora da tempo ad un documentario in varie parti proprio su Wikileaks, che non a caso, attraverso Assange, supportò fin da subito Snowden. Un asse che per i conservatori è diventato ben presto un potenziale rivelatore di segreti che possono nuocere all’attività antiterroristica (ipotesi smentita più volte dai diretti interessati e dai fatti) e che in realtà è una sorta di riproposizione dei movimenti politici che si oppongono alle guerre americane e alle politiche securitarie ad ogni costo.
E mentre venerdì 26 – dodicesimo anniversario del Patriot Act – a Washington l’America scende in piazza proprio contro la paranoia da controllo, attraverso lo slogan «Stop watching us», ci si chiede che fine abbiano fatto le promesse di riforma della Nsa effettuate da Obama lo scorso agosto. Allora, il presidente Usa aveva annunciato un miglioramento dei sistemi di gestione dei dati, che lasciava intravedere una diminuzione del ruolo e dei poteri della Nsa. A marzo 2014 se il nuovo capo della Nsa sarà un civile, anziché un militare, si potrà parlare di una prima svolta, anche se in questi giorni non sono pochi quelli che chiedono a Obama che fine abbiano fatto le promesse estive, quando lo scandalo Datagate era appena scoppiato.