In Francia ha trovato una seconda casa anche Natalia Doco, una figura a metà tra una folk-singer e una chansonnier; queste sono infatti le due identità musicali-culturali che si ritrovano nel suo secondo disco, El buen gualicho (Casa del Arbol/Goodfellas) intrecciate con tanti altri ingredienti interessanti. Dopo l’insoddisfazione per il disco di debutto(Mucho chino, Belleville Music), la cantante e strumentista argentina (suona chitarra, chitarrine e percussioni etniche), ha(ri)meditato sulle sue sorti e deciso di dar forma a un’idea che le era sempre ronzata nella testa, all’insegna dell’autodeterminazione femminile e dell’indipendenza artistica. È, per sommi capi, su queste basi che si sedimenta quello che è dunque il suo primo vero album, in perfetto equilibrio tra i due universi sonori di Natalia Doco, e disegna un mondo meraviglioso in cui tutte le culture hanno pari riconoscimento e dignità, con uno stile impregnato della cosmogonia della sua terra, che ingloba vari elementi etno-musicali e culturali dei paesi attraversati dalla cantante (Messico, Francia…).
A cominciare dal titolo (El buen gualicho) e dalla cover del disco, passando per il logo e il nome dell’etichetta (Casa del Arbol), tutto rimanda a miti, riti e simboli delle società ancestrali e dei nativi d’America. «El gualicho non è un diavolo, ma è uno spirito che, se disturbato, arreca danno – esordisce con enfasi la cantante -. Col tempo si è perso un po’ del significato originario, ed è cominciato ad essere inteso più come un sortilegio, come qualcuno che vuole fare un maleficio a qualcun altro. È un atto rituale piuttosto informale a differenza di altri riti formali! Casa del Arbol è la mia etichetta, ed è la casa di campagna dove abito attualmente, nei dintorni di Parigi».
Natalia Doco, voce angelica e postura da sciamana, gioca sul ribaltamento semantico e concettuale di «gualicho» (figura mitologica Tehuelque) in favore dell’accezione più positiva di «incantesimo» (o buona sorte). «La simbologia del logo dell’etichetta è ancora più antica – ci spiega Natalia – e ha a che fare con la femminilità del creato e col potere delle donne. I serpenti, ad esempio, nella simbologia dei tarocchi (cabala, ndr) rappresentano la fertilità della donna e del suo potere di rigenerare il creato. Sono tutti argomenti di cui parlo anche nelle mie canzoni, ad un diverso livello di comprensione. Ma non voglio spiegarlo, voglio che il significato defluisca naturalmente a seconda di chi ascolta».
L’album è stato concepito tra la Francia e l’Argentina, con la partecipazione e la supervisione di Axel Krygier, il super-eroe anticonformista dell’underground argentino contemporaneo, che suona strumenti classici, autoctoni ed elettronici, crea arrangiamenti a metà tra folk latino, world music e gusto europeo, e produce. «Lavorare con Axel è stato fantastico e semplice allo stesso tempo – racconta l’artista argentina -. Non lo conoscevo di persona ma ero una grande estimatrice della sua musica e sognavo di poter lavorare un giorno con lui ma non osavo chiederglielo, anche a causa della sua proverbiale reticenza a mettersi al servizio di qualcun altro. L’ho fatto solo dopo aver scritto un paio di canzoni che mi convincevano… Gli ho spiegato quali immagini volevo evocassero le mie canzoni e lui mi ha proposto successivamente una “maquette” dove c’era esattamente quello che gli avevo chiesto. È un genio, per me, soprattutto per la sua capacità di attualizzare la musica tradizionale, di andare avanti e indietro nel tempo e nello spazio. E ha quel pizzico di follia necessario per azzardare certe commistioni e collegamenti».
È perciò anche grazie al tocco stravagante di chi sa esattamente quali territori intende esplorare e in quale direzione intende spingersi, che il disco passa repentinamente dalla vena ora più intima e «riflessiva», ora più leggera di alcune chanson (Le jeu, Mademoiselle), alle esplosioni gioiose e improvvise dei cordofoni etnici (Remolino), dalla cumbia impertinente della title-track alla trance estatica di brani indefiniti (Jardin), fino alle intuizioni fulminanti di Lejos la espina e alla vena indigena de La ùltima canciòn, con l’aiuto di qualche efficace artifizio bi-linguistico (francese e spagnolo); e per la prodezza di chi riesce a fondere con generosità il tessuto popolare autoctono con le forme più europee e avanguardiste, scalzando ancor più la contrapposizione e il labile confine tra colto e popolare (come già auspicato dagli chansonnier), così come tra folk, avanguardia e musica popular. «Francamente non mi interessa classificare la mia musica o mettermi dentro questa o quell’altra categoria, in nessun ambito della vita, non lo trovo di nessuna utilità – prosegue la vocalist -. Sicuramente non avrei mai il coraggio di fare un disco folk tradizionale perché non è la mia cultura, è la cultura della gente di Santiago del Estero, che ha la chacarera in bocca fino alla morte. Io sono argentina, ma sono nata e cresciuta nell’ambiente urbano di Buenos Aires, perciò prendo il folklore che mi fa vibrare e lo mescolo a piacere. Adoro la chacarera, la cumbia, il chamamé, ma li rielaboro secondo un mio stile personale, non sono una “integralista” del folklore, che ascolta uno stile e pensa di doverlo rifare secondo certi cliché prestabiliti, niente affatto».
D’altronde l’idea stessa del folk singer come mediatore tra la cultura contadina e il proprio pubblico di riferimento, quale portavoce delle classi non-egemoni appare un caveat ormai superato già dai tempi della rielaborazione di un folk contemporaneo capace di mediare tra retaggi antichi e stimoli moderni (progresso tecnologico e digitale, esposizione mediatica), quand’anche la dicotomia campagna-città era sfumata, e la relazione tra gusti e classi sociali, o generazioni, era divenuta sempre più difficile da classificare. «A casa mia, mio padre ascoltava in continuazione cantanti come Mercedes Sosa o altri rappresentanti della nueva canciòn e suonava con la chitarra tutta la musica tradizionale latinoamericana; è il mio patrimonio culturale. Mia madre invece nel suo laboratorio di sartoria metteva a palla la radio dove mandavano la musica anglofona internazionale (popular). Io ho studiato la bossanova, il gospel, la quadrille e la chanson… Perciò – continua perplessa – è un falso dilemma quello delle categorie! Non so cosa voglia dire pop. Ma so che tutta la musica che viene classificata così è musica che non mi piace. Io faccio canzoni ispirate e non amo essere accostata alla musica commerciale perché è musica che non ha anima. È musica industriale che ha come scopo principale quello di vendere; prendono un accordo di un brano che hanno passato in radio e lo copiano, è tutto uguale, tutto standardizzato. A me piace la musica che ha a cuore l’arricchimento e l’elevazione della società».
Ci riflette su, rimuginando sulla sacralità dell’arte e della necessità del momento creativo di elevare lo spirito sia dei creatori che dei fruitori, secondo l’omologia tra produttori culturali e pubblico di riferimento. «Mi interessa – chiosa Natalia – piuttosto la distinzione tra la musica ispirata e la musica vuota, ove la prima è il frutto di un momento sublime, di notti intere passate ad ascoltare l’ispirazione senza mangiare né dormire. Questa per me è l’autenticità».
La musica di Natalia Doco è questo; un’operazione culturale autentica, l’espressione di una concezione olistica della cultura, forgiata in un (nuovo) contesto «intangible heritage» e di sperimentazione.