La bocca di via del Corso che si apre su piazza del Popolo, a Roma, è presidiata da una pattuglia armata.

Duecento metri più avanti, all’altezza dell’Augusteo, una seconda guardia in assetto di guerra vigila in permanenza quel primo tratto della via, consentito solo al transito pedonale. Il titolare di un vecchio caffè, mi dice che ha dovuto abbandonare, dopo quasi quarant’anni, via del Corso.

Esigevano un canone mensile di quarantacinquemila euro. È l’offerta che il proprietario ha ricevuto da una rinomata firma di abbigliamento intimo. Quel locale è stato trasformato. Grandi luci dardeggiano e una musica perenne si spande ad elevato volume. Tenta di sovrastare quella degli esercizi accanto che, per lo più, offrono gli stessi articoli: scarpe, calze, mutande, maglie, camicie e giacche. Soprabiti, cappotti e giubboni.

Capi offerti a prezzi dai venti ai duemila euro. Saranno forse costati all’origine o meno di cinque centesimi o intorno ai dieci euro. Sono esposti in bella evidenza. Infatti la tipologia commerciale che domina non è del negozio tradizionale, armadi, stipi, cassettiere e commessi competenti che sanno ciò che vendono, capaci di interpretare le esigenze del cliente.

La modalità dell’acquisto è quella del banco della fiera e del venditore nei mercati. Liberati da architetti devastatori gli ambienti del piano strada degli antichi palazzi, oggi puoi entrare in altrettanti piccoli suk.

Sui marciapiedi posteggiatori, rapper, chitarristi e violinisti attaccano la mattina i loro amplificatori e replicano senza sosta un repertorio di canzoni e motivi rap, rock, country, jazz, afro. Certi scultori con cucchiai e spatole modellano in forma di un segugio o di un soriano addormentati, come fanno i bambini sulle spiagge d’agosto, una sabbia sottile portata in un sacchetto alla mattina e riversata a terra.

Sul sagrato di San Carlo, pittori copiano dalle cartoline con gessetti colorati Giuditte di Caravaggio e Fornarine. Oppure spruzzano dalle bombolette spray colori alla nitro che vaporano, sibilando, Campidogli e Colossei da sagome ritagliate. Attori e mimi si mascherano da Cleopatre avvolte in lamine di plastica dorate e restano immobili per ore.

Talvolta han vicino fachiri seduti a mezz’aria su trespoli abilmente occultati. E Pierrot: volti bianchi di farina, nivei panni, candidi guanti e calze. Si eternizzano in statue di gesso per pomeriggi interi.

Da un estremo all’altro. Più in là si esibisce un gruppo affiatato di musicanti saltatori. Al ritmo di strepitose percussioni, anima danze ed esercizi ginnici di bravura: ora una mano a terra e le gambe all’aria; ora una capriola doppia; ora una pericolosa caduta a faccia avanti che un colpo di reni muta, all’ultimo istante, in salto mortale carpiato all’indietro.

Il primo cede la scena a un secondo artista. Eccolo, rotea, sollevandosi a mezza altezza in una sequenza fulminante di quattro balzi in elevazione.

Passeggiano su e giù, da un presidio armato all’altro, mordendo una fetta di pizza o gustando un gelato, torme di giovani adolescenti. Indossano in combinazioni standard i capi di conveniente prezzo tra quelli che osservi esposti.

Gli abiti hanno abbandonato grucce e stampelle e si son messi a camminare davanti al negozio.

Testardi venditori ambulanti traversano controcorrente il lento transito della folla natalizia. Certuni minacciano ai cavalieri delle giovani coppie l’obbligato acquisto d’una rosa da offrire alla damina. Altri ti mettono sotto il naso, con abilità di spadaccini, una lunga bacchetta retrattile, strumento indispensabile per realizzare selfie da sballo.

Altri ancora, guardinghi come fossero appostati, bravi con la schiena per prudenza appoggiata al muro, proditoriamente gettano a terra, quando nessun passante se lo aspetta, certi grumi gommosi o tali pallottole malleabili che, all’impatto, mandano un rumore come di singulto o colpo di tosse, annunciati da un fischio penetrante.

C’è chi fa volare su su, in alto, fino al cielo, certi missili leggeri e velocissimi che si accendono poi, nel loro lento discendere, di certa vivida luce astrale, verdina o azzurra.

Laggiù, in fondo a via del Corso, palle d’argento e stelline d’oro pendono dalle braccia morte di un abete alpino.