Ci incontriamo al mattino poco prima della sua partenza, Yousri Nasrallah è contento e emozionato, il suo nuovo film, presentato in concorso al Festival di Locarno è piaciuto al pubblico e tra meno di una settimana uscirà in Egitto. Se il precedente «Dopo la battaglia» si confrontava con le contradditioni della rivoluzione di Piazza Tahrir, «Al Ma’ wal Khodra wal Wajh El Hassan» (Brooks, Meadows and Lovely Faces) ci porta in provincia, in un villaggio dove vivono i suoi protagonisti, un padre e i due figli tutti cuochi di matrimoni.
E la cerimonia nuziale di una ricca famiglia del villaggio è la cornice che racchiude la narrazione, una lunga giornata che dall’alba a notte fonda scompiglierà le esistenze di ciascuno. Passioni, ripicche, seduzioni: la macchina da presa di Nasrallah accarezza morbidamente la complicata trama di relazioni, scava nei cuori e nei segreti, si lascia sedurre da una cantone d’amore, balla insieme alla danzatrice del ventre, mischia sapori e spezie il cui gusto diviene metafora dell’esistenza. E dietro al melodramma familiare di musical e commedia come uno chef raffinatissimo Nasrallah impasta la commedia del presente. Il profilo dell’Egitto di Al-sisi e di una dittatura la cui brutalità si annida nel gesto quotidiano di repressione e annichilimento. Contro il quale musica, ballo, risata, l’erotismo di una mano che sfiora l’altra, la sensualità appaiono come armi pericolose, la potenza sovversiva del caos, di un un gusto che rivendica la sua unicità.
«Brooks, Meadows and Lovely Faces» rimanda in modo esplicito alla tradizione del cinema popolare, musical, melodramma, intrighi familiari, sobbalzi amorosi. Nei tuoi film ha sempre giocato coi generi ma qui si ha quasi l’impressione che l’immagine «tradizionale» del film sia un modo per scompigliare le certezze del presente.
La forma popolare del racconto è evidente dalle prime sequenze, anzi direi che è determinata dal soggetto, dalla cornice narrativa del matrimonio. Tutta la prima parte si svolge in un’unica, lunghissima giornata che va dall’alba al tramonto, comincia coi preparativi della festa nuziale per seguirne lo svolgersi sino alla fine. È durante queste ore che conosciamo i protagonisti, ne scopriamo i segreti, l’indole, i conflitti…
Col passare delle ore li vediamo rivelarsi gli uni agli altri, inseguire i propri sogni, sfidare le regole di un destino che li sovrasta, vissuto come una costrizione. Scopriamo i rapporti che ci sono nella piccola comunità della cittadina: il padre e i due figli cuochi che lottano perché la loro piccola impresa non venga divorata dalla speculazione; l’arrogante potente del luogo che gode dei favori di politici corrotti; la rapacità degli interessi familiari che impedisce ai giovani di amarsi liberamente. I sentimenti di questi personaggi, per chi battono i loro cuori, i colpi di fulmine e i non detti. Avevo in mente, e credo che sia piuttosto evidente, «La regola del gioco» di Renoir, per quel suo registro comico e popolare. Solo che lì alla fine di una giornata caotica tutto torna in ordine, mentre qui accade l’inverso. Di questa storia mi piaceva poi la possibilità che offriva di esaltare il ruolo delle donne. Volevo che avessero la potenza delle immagini femminili negli anni Cinquanta, specie il personaggio di Shadia a cui dà vita Laila Eloui, una grande attrice molto conosciuta in Egitto. Penso a Ingrid Bergman nei film di Rossellini, un regista che conta moltissimo per me, e alle tante altre figure di donne che attraversano anche il cinema egiziano di quel periodo. Perché da quando le donne vengono costrette a ruoli minori o presentate come l’accessorio dei grandi super eroi, nell’immaginario si è prodotto qualcosa di molto negativo.
In effetti sono le donne a prendere l’iniziativa nel film, a liberare sensualità, erotismo, a «scuotere» le regole come anche a architettare terribili vendette. Sembri molto più attratto dal loro spazio di danza e di energia che da quello dei maschi…
Ho girato in una cittadina a nord del Cairo, le donne lì indossano gli abiti che si vedono nel film, sono molto colorate e seducenti. Portano il velo ma con grazia e sensualità, e del resto la questione per me non è il velo in sè, come già ho cercato di mostrare nel mio film «Sui ragazzi, sulle ragazze e sul velo». Quello che mi interessa è come le ragazze sovvertono l’imposizione del velo e in che modo inventano in questo la loro libertà. È la stessa energia che sprigiona il loro spazio, il modo in cui si raccontano le cose, quando ballano insieme sono esplosive, sembrano le sole a avere la forza di rovesciare i rapporti di potere familiari.
Dicevi che hai girato in provincia, è stata una tua decisione?
Sì e per questo ho avuto anche grandi discussioni col produttore che per ragioni di costi preferiva girare al Cairo. Abbiamo fatto molti sacrifici, ci siamo ridotti la paga, ma per me era fondamentale girare in quei luoghi, ricostruirli in studio avrebbe ucciso il film. E lo capisci subito quando vedi i volti delle comparse, hanno una «verità» che in città era impossibile da ottenere.
La cifra da film popolare di cui parlavamo prima, quasi fuori dal tempo, lascia però affiorare molti motivi legati al presente dell’Egitto, E non solo nell’esplosione di brutalità che arriva alla fine, con l’assassinio del ragazzo gettato nel fossato sul ciglio della strada dopo terribili torture.
La sceneggiatura di questo film risale agli anni Novanta però non avevo mai trovato il momento giusto per girarla. In un certo senso lo considero la mia opera della maturità, quando si è giovani si vedono le cose diversamente. I film dei nuovi registi egiziani, e ce ne sono di bravissimi, hanno tutti un tono molto cupo, probabilmente anche io ero così alla loro età. A un certo punto ho anche incontrato il cugino di Bassem Samra, l’attore che interpreta Rafat, che è un cuoco di matrimoni come i protagonisti della mia storia. Ho ripreso in mano la sceneggiatura concentrandomi sulla figura del padre che difende la qualità del suo lavoro per passione prima che per denaro: cucinare per lui è un atto d’amore. Ho asciugato la storia dai riferimenti politici troppo espliciti, eliminando tutto quello che la rendeva pesante. Nei miei film ho sempre cercato di disseminare l’aspetto politico nei dettagli meno evidenti, nelle pieghe della narrazione. Una dittatura rende la gente docile utilizzando la tristezza, la rassegnazione, la perdita di identità. E allora facciamo un film in cui ritornano la gioia, il riso, la voglia di fare festa, di innamorarsi, di ballare, di vivere.
Quali erano le parole che guidavano la protesta nel 2011? Pane, libertà, dignità. Tre cose che non possono mancare nella vita di nessun essere umano. Se ci pensi la questione nel film si pone sin dalle prime immmagini, quando mentre stanno preparando un piatto Rafat, il fratello maggiore si accorge che manca il timo e il minore gli suggerisce di sotituirlo con il coriandolo, tanto nessuno se ne accorgerà. Ed invece lo sentono proprio come un contadino aveva tanti anni primo sentito la differenza in un piatto di riso preparato dal padre tra il pepe e la cannella. Non è questo il senso della libertà di scelta? Oggi in Egitto la crisi economica, la povertà sono i problemi più seri insieme alla corruzione e alla brutalità della polizia che sembra quasi volersi vendicare di quanto è accaduto nel 2011. Anche i matrimoni sono in crisi, non ci sono più i soldi e chi lavora come i personaggi del film rischia di fallire.
La scelta dell’ambientazione permette al tempo stesso di raccontare un’altra parte dell’Egitto, forse meno visibile.
«Brooks, Meadows and Lovely Faces» esce in Egitto la prossima settimana. Vorrei che il suo pubblico fosse quello dei suoi personaggi, un mondo che esiste ancora ma che è in pericolo, che rischia di venire risucchiato dalla speculazione e dalla corruzione. Cio che stiamo vivendo oggi non riguarda solo la censura o i divieti di manifestare ma la qualità della vita di ciascuno. Lottare per ritrovarla deve essere la nostra scommessa.