Un processo di inversione demografica descritto dal report dell’Istat sugli indicatori demografici del 2015: gli ultra 65enni sono il 22% della popolazione, mentre le nascite sono state 15 mila in meno rispetto al 2014: 488 mila, il minimo storico dall’unità del paese. La tendenza era già emersa nel 2014, quando il livello delle nascite si era fermato a una cifra superiore: 503 mila. Il processo ha un impatto sulla popolazione attiva tra i 15 e i 64 anni. La riduzione riguarda entrambi i poli: diminuiscono le persone attive sul mercato del lavoro adulte e quelle in attesa di entrarci (i quattordicenni). Le prime scendono a 39 milioni (64,3%), la seconda rappresenta il 13,7% (8,3 milioni). Questa tendenza va considerata perché influisce sulla determinazione del tasso di occupazione e disoccupazione, oltre che su quella degli inattivi. La flessione registra l’incapacità di includere in un’attività retribuita regolarmente e riconosciuta ai fini previdenziali una crescente fetta della popolazione, espulsa verso la povertà assoluta e il lavoro nero. Le regioni più anziane sono Liguria (28,2% di ultra65enni), Friuli Venezia Giulia (25,4%) e Toscana (24,9%). Quella più giovane è la Sicilia (20,2%).

L’Istat registra un dato già registrato: i decessi sono maggiori delle nascite. Inevitabile che accada, considerata la composizione demografica di un paese – come molti altri europei, a cominciare dalla Germania – con un’età media alta. Nel 2015 i decessi sono stati superiori alle nascite: 54 mila in più rispetto al 2014 (+9,1%), in totale 653 mila. Le morti si sono concentrate nelle fasce di età più avanzata: 75-95 anni. Il saldo è di meno 165 mila. Il 2015 è stato il quinto anno consecutivo di riduzione della fecondità. La media italiana è di 1,35 figli per donna. L’Istat registra anche la diminuzione di centomila cittadini italiani che nel 2015 si sono cancellati dall’anagrafe per trasferirsi all’estero: +12,4% rispetto a dodici mesi prima. I rientri in Italia dei residenti all’estero sono stati 28 mila. Aumentano le iscrizioni anagrafiche dei cittadini stranieri dall’estero: 245 mila. Un dato che va confrontato con quelli dell’immigrazione.

Nel 2015 sono stati registrati 200 mila cittadini stranieri in più, a cui vanno aggiunti 63 mila nati in Italia. In questo bilancio in crescita vanno aggiunte 136 mila persone straniere, nate in Italia, a cui è stata riconosciuta la cittadinanza. Il numero sta crescendo anno dopo anno: erano 29 mila nel 2005, 66 mila nel 2010. Sono raddoppiate cinque anni dopo. I «nuovi italiani» e la popolazione straniera residente stanno crescendo e si radicano in una società dove hanno pochi diritti e quelli ottenuti dalla legge sullo «ius soli temperato» sono ancora condizionati ad uno status economico della famiglia di provenienza. Il 59% della popolazione straniera risiede al Nord, oltre un quinto in Lombardia. Il 25% risiede nel Centro: 640 mila nel Lazio. Solo il 16% vive a Sud: 233 mila in Campania. Le motivazioni di questa riduzione demografica sono attribuite a fattori principalmente economici dalla politica e dai sindacati: la crisi economica, la mancanza di una politica industriale, il precariato, una scarsa ma tutta da dimostrare attenzione verso le politiche della famiglia. Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha annunciato nuove misure a sostegno delle donne che lavorano e un rilancio del «bonus bebé». A suo avviso «le culle vuote sono il principale problema economico del paese».
I dati Istat hanno creato una nuova emergenza – non si può dire certo sconosciuta – che porterà il governo a presentare «mozioni a sostegno della famiglia», così ha promesso il ministro per gli affari regionali Enrico Costa, alfaniano dell’Ncd. Tra le sue deleghe c’è anche quella alla famiglia», com’è noto materia delle regioni. Considerate le misure analoghe già adottate dal governo, si preannunciano formule parziali estranee ad una chiara visione universalistica della mancanza di tutele – come il reddito minimo – ma organica a una visione frammentata della società. Il calo delle nascite e della riduzione della popolazione attiva può essere dovuta alla mancanza di un lavoro dignitoso. E anche alla pervicace mancanza di un welfare universale.