L’ingresso del Partito democratico nel Partito socialista europeo è certamente una notizia. Se non altro certifica la fine di un tormentone spesso stucchevole che accompagna il Pd dalla sua nascita: venticinque anni dopo la Bolognina di Occhetto, che rifiutò il nome «socialista» per il dopo-Pci, la sinistra riformista italiana scioglie la riserva, e in cambio di un aggettivo in più – «democratico» – aggiunto al Pse fa una scelta definitiva di campo europeo. Probabile, come hanno scritto in molti, che una decisione così potesse prenderla solo un segretario come Renzi, estraneo alla storia sia del Pci che del socialismo europeo, ma il punto a me sembra un altro. Cosa significa in termini di prospettive programmatiche, di cultura politica, questa scelta del Pd? Direi non moltissimo. Oggi il Pse è un contenitore di partiti, di posizioni che in comune hanno quasi soltanto il riferimento a una tradizione gloriosa: dentro convivono europeisti appassionati e convinti euroscettici, sostenitori del fiscal compact e accesi fautori di politiche economiche neo-keynesiane, nuclearisti (i francesi) e antinuclearisti (i tedeschi). Ecco, forse questo sincretismo è il vero tratto di unione tra Pse e Pd: anche nel Pd c’è di tutto, da chi vorrebbe perpetuare sine die le larghe intese a chi occhieggia alla Lista Tispras, da quelli che fino a ieri si definivano teodem ai paladini dei matrimoni omosessuali.

Hanno bisogno di questo l’Europa e l’Italia per avvicinare quei cambiamenti politici radicali senza i quali l’attuale stallo sociale, economico, civile, ambientale diventerà rapidamente collasso? Penso che l’attuale opacità culturale e programmatica dei progressisti europei e italiani siano parte del problema, non della soluzione. Green Italia, che tiene oggi a Roma la sua assemblea di fondazione (al Teatro Quirinetta dalle 9 e mezza alle 18, ci saranno tra gli altri Luigi Ciotti, Giusi Nicolini, Ignazio Marino), nasce anche da questa convinzione: siamo ecologisti con storie politiche diverse (o nessuna storia politica) alle spalle, ci siamo uniti perché non sopportiamo più l’assenza dalla politica italiana di una proposta chiara che indichi nel green new deal, dall’economia verde ai beni comuni, la via più convincente per affrontare insieme le crisi che assediano il continente.

Nel resto d’Europa una proposta così è saldamente in campo, spesso con numeri elettorali importanti. In Italia no, e questa anomalia è al tempo stesso un sintomo e una causa di molti dei nostri mali. Eppure gli italiani hanno da insegnare in materia di ecologia. Siamo l’unico Paese europeo che per due volte con referendum plebiscitari ha detto no al nucleare, siamo quelli che secoli prima degli altri hanno praticato la green economy costruendo ricchezza e benessere con materie prime immateriali come la bellezza naturale e culturale, la creatività delle persone, la coesione sociale e territoriale. Adesso siamo il Paese dell’Ilva di Taranto, della terra dei fuochi in mano alle ecomafie, di un dissesto idrogeologico ormai terrificante, di ministri dello sviluppo che fanno la guerra alle energie rinnovabili per difendere gli interessi dei grandi potentati dell’energia fossile. Green Italia nasce per aiutare a invertire questa rotta suicida, magari per dare una mano pure al Pd neo-socialista a decidere cosa vuole fare da grande.