Da qualche anno l’attenzione verso le periferie urbane ha iniziato a occupare il discorso pubblico anche oltre l’imminenza delle scadenze elettorali, a partire dalla dimensione sociale e culturale della perifericità oltre che dalla sua natura spaziale. Meno consolidato è invece l’interesse verso aree di provincia dove le criticità sono meno evidenti, ma dove si riscontrano le stesse condizioni di perifericità dei luoghi esclusi dalla geografia del potere e della cultura. Tuttavia è in queste aree, spesso isolate e circoscritte per numero di abitanti, che le trasformazioni generate da esperimenti e da pratiche sociali e produttive virtuose possono affermarsi e consolidarsi. In taluni casi è la presenza di sindaci audaci, comunità, eventi specifici a innescare questi processi.

È quanto accaduto a Ormea, un piccolo comune dell’Alta Valle Tanaro, al confine tra Liguria e Piemonte, colpito nel 2016 da una devastante alluvione. Da questo evento è nato Nasagonando Art Project, un progetto ideato da Emanuele Piccardo, architetto e fotografo fondatore del laboratorio sperimentale plug_in, in dialogo con Giorgio Ferraris, sindaco di Ormea, e realizzato grazie al sostegno della Fondazione CRC nell’ambito del bando «Residenze d’artista», iniziativa destinata a promuovere l’azione degli artisti in dialogo con le comunità e i territori locali. Nella cornice di un progetto orientato a sollecitare la riflessione sul rapporto tra uomo e natura, l’artista Maria Chiara Calvani ha lavorato con l’associazione culturale Ulmeta e il centro di accoglienza dei richiedenti asilo, sviluppando azioni e laboratori, fino a creare un dispositivo mobile con il quale chiunque può raccogliere e scambiare erbe, saperi, tradizioni, storie e, come è avvenuto a opera di un giovane migrante appassionato di cucina, preparare e offrire cibo.

Nel corso di un anno di mostre e campagne fotografiche, Nasagonando Art Project ha recuperato ad uso pubblico un ex deposito ferroviario, dove radici e tronchi raccolti da Alessandro Chiossone e Roberta Volpone si sono trasformati in reperti archeologici della catastrofe, invitando a ripensare il nostro rapporto con l’ambiente. All’esterno, incorniciata dal verde intenso dei boschi, l’opera del collettivo Parasite 2.0, Anthropos Melting, è l’emblema di una riflessione sulla permanenza e l’ubiquità dell’azione umana tra natura e artificio: un misterioso totem che si innalza verso il cielo, evocando la versione fantasmatica delle unità geometriche da cui procede l’azione costruttiva dell’uomo.

È un segno ameno, ibrido, generato dall’incontro tra arte, architettura e design, come molte opere dell’ormai noto collettivo fondato da Stefano Colombo, Eugenio Cosentino e Luca Marullo, vincitore nel 2016 del prestigioso YAP MAXXI di Roma e invitato in rassegne artistiche e di architettura internazionali, dal Cile all’Olanda, alla Cina. Imponente, ma più instabile di altri segni tipici dell’azione antropica sul paesaggio, la scultura è infatti realizzata in moduli di sale usati nella zootecnia come alimento per le mucche e destinati, nell’uno e nell’altro caso, a sciogliersi.

Un monumento alla caducità, nostra e dell’ambiente in cui viviamo, un segno fragile destinato a sollevare domande, a generare pensiero e, forse, a sopravvivere nel tempo come espressione di una nuova consapevolezza. In attesa della prossima edizione in cui Stefano Boccalini porterà l’attenzione collettiva al bosco, luogo in cui il rapporto tra uomo e natura è stato per lungo tempo espressione di un bene comune.