Le retoriche pubbliche dicono che di fronte ai disastri che investono intere collettività, queste ultime reagiscono con le loro caratteristiche migliori, facendo emergere le loro virtù. La storia racconta altro. O meglio, racconta che ad emergere sono i conflitti, nessuna essenza o indole necessaria. Le essenze, cioè modi di essere e agire quasi fondati su basi naturali, non esistono nei fatti e comportamenti sociali. È questa una delle lezioni che si evince dal libro Mezzogiorno tra identità e storia. Catastrofi, retoriche, luoghi comuni (Donzelli, pp. 282, euro 20) scritto da Costantino Felice, docente di storia economica dell’università di Pescara, per Donzelli.

Analizzando i racconti e le analisi scaturite dopo il terremoto de L’Aquila del 2009 e andando a fondo in libri e studi di fasi storiche e catastrofi precedenti, il testo mostra quanto le retoriche essenzialiste, per le quali esistono identità fisse e certe, siano del tutto infondate oltre che superficiali. E siano astoriche e anti-storiche, nonostante, invece, si alimentino di riferimenti alla storia o al passato nel tentativo di costruirlo come un mito teso a produrre e riprodurre valori eterni.

Queste retoriche non sono prive di effetti, come mostrato nel capitolo Catastrofi e retoriche identitarie. Al contrario, esse sono strumenti, anche potenti, non solo di costruzione sociale ma anche di governo della realtà. Come nel caso del terremoto del 2009, si verifica che «quanto più l’evento appare poderoso e schiacciante – quindi bisognoso di interventi immediati – tanto più lo si depotenzia di profondità nel passato (nei suoi passati) e di proiezione nel futuro».

Come viene presentato nel capitolo Gli specchi deformanti: miti e stereotipi, le retoriche fissano il passato e, in realtà, più che costruire un mito, dunque un racconto capace di futuro, determinano un’essenza bloccata, incapace di prospettiva. Costantino Felice ripercorre questi conflitti da storico, contestualizzandoli in diversi periodi e ponendoli in relazione tra loro. I conflitti sono sociali e politici e si ritrovano anche nei comportamenti ed episodi minuti, quotidiani. Il libro ne ricostruisce molteplici, per esempio quando durante la Seconda guerra mondiale «si assiste al dilagare di un diffuso banditismo anonimo, espressione spesso di mero istinto predatorio», così come durante il terremoto aquilano con gli atti di sciacallaggio.

È evidente non vi siano identità definite e definitive, con confini precisi, sicuri, sacri, bensì conflitti che si esprimono anche in comportamenti estremizzati proprio di fronte e dentro le catastrofi, con la compresenza di «gesti di solidarietà e altruismo ma anche di offese ed egoismo».

I conflitti sono legati alla storia regionale di Abruzzo e Molise, osservata nel capitolo «geografia, storia, scienze sociali», che interessa non solo i rapporti socio-politici ma anche quelli socio-ecologici, come già osservato in analisi del passato, come quella di Silone nel racconto Uscita di sicurezza. Ciò non significa assumere qualche tipo di determinismo geografico, come è avvenuto, invece, in parte degli scritti sul Mezzogiorno dell’800 e anche del ‘900, ma è utile per ricordare che le interazioni umanità-natura non umana sono decisive anche nella realtà locale, sebbene da comprendere nella loro storicità.

Il saggio indaga dall’interno la costruzione dell’identità fatta nel tempo di Abruzzo e Molise, andando oltre e contro qualunque naturalizzazione e neutralizzazione dei conflitti, concludendo, nell’epilogo, che «non esistono un’abruzzesità e una molisanità predefinite: l’identità, compresa quella personale, ammesso che la si possa sostanziare di contenuti duraturi, è sempre frutto di processi storici».