Un inizio settimana da resa dei conti ha messo un po’ di pepe nel rinnovamento generazionale in corso dalle parti della destra indiana. Nonostante manchino diversi mesi alle elezioni del prossimo governo centrale, previste per la prima metà del 2014, il Bharatiya Janata Party (Bjp), principale partito d’opposizione a capo della coalizione New Democratic Alliance (Nda), sta cercando di bruciare le tappe e prepararsi all’appuntamento alle urne elevando una figura carismatica e «vincente» in grado di ricompattare un elettorato sfinito dalle diatribe interne.

Quella figura, e lo si sapeva da mesi, è Narendra Modi: 62 anni, hindu devotissimo, cresciuto politicamente – come gran parte della classe dirigente conservatrice indiana – nelle file della Rashtriya Swayamsewak Sangh (Rss), gruppo paramilitare dell’estremismo hindu, una delle anime ideologiche che tira i fili del Bjp.

Chief minister del miracolo economico del Gujarat – dati non ufficiali parlano di crescita intorno al 10%, contro la media indiana poco sopra al 5 – nonostante la presunta responsabilità diretta dei pogrom che nel 2002 si abbatterono sulla minoranza musulmana dello stato nord-occidentale, Modi ha saputo costruire attorno a sé l’immagine del leader vincente, dell’uomo sul quale scommettere per cacciare l’Indian National Congress dai palazzi del potere e far ripartire un’India a misura di aspirazioni di una certa classe media (anche della diaspora): più soldi, più peso a livello internazionale, più determinazione contro terrorismo e pericolo islamizzazione, più aderenza alla tradizione hindu (linguistica, religiosa, dei costumi) in contrasto con la globalizzazione.
Lo scorso weekend, durante la convention del Bjp convocata a Goa, Modi è stato nominato all’unanimità a capo del comitato elettorale del 2014, trampolino di lancio per una candidatura alla premiership che ormai appare inevitabile. Osannato dalla folla al grido di «Na-Mo! Na-Mo», il nomignolo coniato dal suo entourage per intercettare il voto dei giovani, Modi non ha però goduto del fondamentale benestare di Lk Advani, ultraottantenne colonna portante del Bjp, curiosamente datosi per malato – unica volta in 33 anni di stati generali del Bjp – proprio nel fine settimana che avrebbe sancito il trionfo del suo ex pupillo.

Non è un mistero che Advani non nutra simpatia per Modi, personaggio carismatico, accentratore e vanesio, e che consegnare il partito in mano a NaMo significhi con ogni probabilità la chiusura di una stagione politica dove i gruppi della destra hindu – Rss, Shiv Sena a Mumbai, Vishva Hindu Parishad nel sud – hanno sempre tenuto le redini del potere politico nelle stanze dei bottoni del Bjp. Una rivoluzione inevitabile che Advani sta tentando di ritardare il più possibile, nella speranza di posizionare in pole position per la premiership del 2014 Shivraj Singh Chouhan il «giovane» (54 anni) chief minister del Madhya Pradesh, politico decisamente più mite, malleabile e «d’apparato» rispetto al vulcanico Modi.

Messo pubblicamente in minoranza, lunedì Advani decide di far saltare il banco, consegnando la propria lettera di dimissioni al presidente del Bjp Rajnath Singh. Motivo ufficiale: non mi riconosco più nella gestione del partito e nella strada che ha intrapreso. Motivo reale: Modi dovrà passare sul mio cadavere.

Inizia quindi il triste balletto di dichiarazioni disperanti e pietose per esortare il grande vecchio Advani a un ritorno sui propri passi, ché il Bjp «ha bisogno della sua guida», mentre l’elettorato – per strada e sui social network – non vede l’ora di mandare in pensione Advani e i suoi «yatra», carovane di comizi infarciti di retorica razzista e populista che ad esempio, nei primi anni ’90, incitarono la folla a demolire a mani nude la moschea Babri nella cittadina di Ayodhya; colpevole di sorgere da oltre 400 anni sul luogo dove – secondo la leggenda – nacque il dio Ram. Seguirono pogrom e oltre duemila morti nel giro di poche settimane.
A far rientrare l’allarme ci ha pensato Mohan Bhagwat, capo della Rss, l’unico in grado di placare le permalosità di Advani, agile nel ritirare le dimissioni martedì pomeriggio nonostante il messaggio sia arrivato forte e chiaro: adeguati alle decisioni del partito, Modi è il nostro cavallo vincente.