Per il neoplatonico Salustio i miti erano doni fatti dagli dèi ai poeti. E converrà credere che quello di Narciso, l’infelice giovane che si innamora di se stesso, fu donato a Ovidio affinché con la sua arte desse sostanza a una di quelle storie «che non avvennero mai ma che sono sempre», com’è proprio appunto dei miti. Non ci sono prove certe che qualcuno prima del poeta delle Metamorfosi (ultimate nei primi anni del I secolo d.C.) abbia narrato di Narciso. Ma se è vero che l’origine dei grandi miti non si perde necessariamente nella notte dei tempi, è altrettanto vero che anche quando se ne può determinare storicamente la comparsa essi si presentano sempre – come ha scritto Hans Blumenberg – come «memoria dell’immemoriale», ciò che rende peraltro possibili le loro continue riscritture e trasposizioni in ambiti storici e contesti culturali diversi.
Una preziosa testimonianza in questo senso è il libro Narciso La passione dello sguardo. Variazioni sul mito (Marsilio «Grandi classici tascabili», pp. 181, € 9,00), curato da Sonia Macrì, agguerrita classicista formatasi tra il Centro Antropologia del Mondo Antico di Siena e il Centre Gernet-Glotz di Parigi, e ora docente presso l’Università Kore di Enna. Come prevede il format della collana, voluta da quella maestra di storia della tradizione classica che è Maria Grazia Ciani, il volume comprende un agile ma sostanzioso saggio introduttivo seguito da un’antologia di autori antichi (qui limitata a Ovidio e Filostrato, ma si sarebbero potuti aggiungere Conone e Pausania, i cui testi sono peraltro molto brevi) e moderni (La Fontaine, Valéry, Rilke, Williams, García Lorca, Borges, Ritsos, Pasolini e Walcott). Le traduzioni, ottime, sono in gran parte della stessa curatrice e di Maria Grazia Ciani.
Nel racconto ovidiano Narciso è figlio del fiume Cefiso e di Liriope, una ninfa fluviale da questi posseduta con la forza. Si capisce da subito perciò che il suo destino è legato all’acqua. Alla madre che gli chiede se il figlio conoscerà la vecchiaia, l’indovino Tiresia risponde: «Sì, se non conoscerà sé stesso». Narciso crescendo diventa un bellissimo giovane, di cui si innamorano ragazze e ragazzi, ma lui sprezzantemente respinge ogni profferta, dedicandosi solo alla caccia. Anche la ninfa Eco si strugge per lui e, rifiutata, per il dolore finisce per dissolversi in puro suono. Ma uno dei tanti amanti respinti chiede a Nemesi, la dea della vendetta, di punire il giovane spietato facendolo struggere a sua volta per un amore che non potrà mai concretizzarsi. Avviene così che un giorno Narciso, affacciandosi su una limpida fonte, veda un volto di straordinaria bellezza e se ne innamori perdutamente, senza rendersi conto che è il suo stesso volto riflesso dalla superficie dell’acqua. Ammaliato, cerca di toccarlo, di baciarlo, ma invano. Solo dopo molti frustranti tentativi comprende la verità: «Ma sono io! … Ardo d’amore per me…». E allora, rendendosi conto che il suo è un amore impossibile, sente che la voglia di vivere lo abbandona. Ovidio descrive il suo progressivo lasciarsi andare, il cedere a una consunzione (tabes) che lo porta fatalmente a spegnersi. La profezia di Tiresia si compie. Sul luogo dove Narciso muore le ninfe troveranno il fiore che da lui prende il nome.
Nella versione di Conone, arrivataci in un estratto del patriarca bizantino Fozio, la morte di Narciso è invece cruenta, e il fiore nasce dal sangue versato al momento del suicidio. Altre versioni lo fanno morire per volontario annegamento nella fonte stessa (la morte per acqua, il cosiddetto katapontismós era la modalità classica del suicidio per amore: si pensi al salto di Saffo dalla rupe di Leucade ). A parlarne per primo è Plotino, nel III secolo della nostra èra, ma la storia sarà ripresa più volte, a partire dall’età bizantina.
In ogni caso, si capiscono le ragioni del fascino durevole esercitato da una storia che ha come suoi ingredienti il doppio, lo specchio, l’immagine ingannevole, la ricerca della propria identità, l’amore aberrante per se stessi. È un mito che sostanzialmente mette in gioco la tensione tra essere e apparire, l’incertezza della relazione tra l’io e l’altro. Riconoscersi come mero riflesso obbliga a prendere atto di un difetto di realtà che ha effetti profondamente destabilizzanti.
Ma qual è il peccato originale di Narciso, quello che ne causa in ultima analisi la perdita? Macrì sagacemente lo riconduce al termine che nelle fonti greche viene impiegato per esprimere il disprezzo degli amanti crudeli per i loro spasimanti: hyperopsía, ossia il guardare dall’alto in basso, il rifiutarsi di incrociare lo sguardo su uno stesso livello. L’altezzoso Narciso si sottrae alla norma che deve regolare i rapporti affettivi: la cháris, ossia l’obbligo di ricambiare il dono che ci viene offerto («Amor, ch’a nullo amato amar perdona…»), su un piano paritetico. E quando finalmente è pronto per questa esperienza, compie un altro errore fatale. L’unico specchio in cui un uomo deve rimirarsi – ce lo ha spiegato Françoise Frontisi-Ducroux in un suo lavoro ormai classico – è l’occhio di un altro uomo, perché la sua vocazione, il suo destino è di relazionarsi al proprio simile. Guardarsi attraverso il riflesso di una superficie inanimata significa esporsi alla reificazione, all’alienazione.
In ogni caso, ieri come oggi, l’autoreferenzialità estrema conduce a una condizione psichica particolare, a quel disturbo della personalità che Havelock Ellis nel 1898 battezzò narcisismo e che Freud studiò negli anni successivi dal punto di vista psicoanalitico.
Oggi assistiamo al trionfo del narcisismo sui social, mentre il selfie, l’ossessione della nostra epoca, tradisce l’incapacità dell’io che si specchia nello schermo dello smartphone o del tablet di rapportarsi efficacemente agli altri.
Ma tra Ovidio e instagram si dipana una lunga storia, segnata da scrittori e poeti che, soprattutto tra Otto e Novecento, hanno ridato voce a Narciso. Il libro di Macrì la ripercorre puntualmente, prendendo in esame gli autori più significativi e offrendo una selezione dei loro testi. Peccato che la tirannia dello spazio abbia comportato esclusioni in qualche caso dolorose. Di Pasolini, per esempio, è rimasto fuori un testo importante come Poesia in forma di rosa, dove il poeta, consapevole della sua diversità, afferma orgogliosamente che la delusione e il vuoto «fanno bene alla dignità narcissica» (sic), e che il narcisismo è «sola forza consolatoria, sola salvezza!».
Il saggio di Macrì si sofferma adeguatamente anche su autori non antologizzati, come Pascoli, che ne I Gemelli (1905), il poemetto compreso nella seconda edizione dei Poemi Convivali, riprese la notizia riportata da Pausania secondo cui Narciso aveva una sorella gemella in tutto e per tutto identica a lui; e quando la fanciulla morì, specchiandosi nella fonte egli immaginava di vedere non il proprio sembiante ma quello di lei. Nel tentativo che il personaggio fa di ricostruire la propria identità, compromessa dalla scomparsa della sua metà, non è difficile leggere in filigrana il rapporto intensissimo – si sospetta perfino incestuoso – che Pascoli ebbe con la sorella Ida.
Anche qui, certo, altri nomi avrebbero potuto trovare posto. La voce di Narciso di Carmelo Bene (1982), per esempio, è fondamentale perché Bene – narciso assoluto sulla scena e nella vita – interpreta il mito come ricerca della conoscenza attraverso il totale annullamento dell’io: «Non esisto dunque sono», è la frase che compendia il suo pensiero.
E sarebbe stato decisamente auspicabile l’inserimento di Oscar Wilde, altro narciso di rango, non solo per l’arcinoto romanzo Il ritratto di Dorian Gray, tutto giocato sulla dissociazione-ricomposizione dell’io e della sua apparenza fallace, ma anche, e a maggior ragione, per il racconto breve La storia di Narciso (1894). In esso si immagina che dopo la morte di Narciso le ninfe chiedano alla fonte perché pianga. La risposta è un witz folgorante: «Piango per Narciso, perché tutte le volte che lui si sdraiava sulle mie sponde, io specchiandomi nei suoi occhi vedevo riflessa la mia bellezza».