La lunga Presidenza di Giorgio Napolitano non passerà, sicuramente, sul piano storiografico, sotto silenzio; così come non è stata, di certo, silenziosa politicamente. Proprio per questa sua natura tutt’altro che neutra, il giudizio su di essa sarà fortemente legato all’esito che questa fase politica avrà e, ovviamente, per le stesse ragioni, al punto di vista di storici e commentatori.

La durata stessa, quattro Presidenti del Consiglio con quattro schieramenti diversi ed un solo (inconcludente) passaggio elettorale in mezzo, una (altrettanto inconcludente) elezione di un altro Presidente della Repubblica; una crisi economica, morale e istituzionale tra le più gravi nella storia repubblicana; un passaggio traumatico di consegne istituzionali e politiche nel suo partito. Sarebbero stati ingredienti forti per chiunque, anche senza aggiungere la sua interpretazione decisamente interventistica.

Proprio questo è, e sarà, uno dei temi di divisione interpretativa; poiché tale interventismo è innegabile, anche dai più strenui sostenitori di questa Presidenza, se esso sia stato la salvifica e responsabile interpretazione di una oggettiva drammatica situazione; o l’espressione di una regia volontaria, ben al di là dei limiti previsti dalla Costituzione.

Credo che una delle risposte possibili, stia nella storia politica del personaggio, che si è trovato a gestire un potere abnorme anche per il vuoto politico – istituzionale dei partiti, ma che lo ha esercitato secondo un disegno coerente, appunto, con la sua storia.

Giorgio Napolitano, dalla fine degli anni settanta, è stato l’espressione di una precisa volontà di trasformazione, prima del Pci, poi dei suoi derivati, in una forza pienamente integrata nella società capitalistica. In questo orizzonte, subalterno e moderato, responsabilità nazionale significava – e significa – rimozione del conflitto sociale; riforma significava – e significa – aggiustare i meccanismi esistenti; rinnovamento significava – e significa – essere accettati nei salotti buoni del potere, nazionale e sovranazionale.

Questa fu la sua interpretazione del «compromesso storico», questa fu la sua interpretazione della Bolognina; questo spiega la sua apertura alla proposta craxiana di «unità socialista» e, soprattutto, la sua opposizione al Berlinguer dell’ «alternativa democratica», dei cancelli di Mirafiori e del referendum sulla «scala mobile».
Non è l’assenza di alternative ad aver, dunque, guidato la sua mano pesante, ma la possibilità – certo, favorita dalla dissoluzione della sinistra e, segnatamente, del gruppo dirigente post berlingueriano – di «normalizzare» una storia, non identificandola (com’è sempre stato per la sinistra) con quella del Paese, ma con quella delle sue forze dominanti. Naturalmente non è stato solo; ha avuto, in Italia e in Europa, occhi vigili e mani solidali di chi, in Europa e in Italia, ha interesse a far apparire come le uniche compatibilità possibili, quelle definite dagli stessi poteri economici che hanno generato gli aspetti peggiori della crisi.

E’ stato ed è – non da oggi, insomma – uno dei simboli più espliciti di questa rinuncia, di una parte della sinistra italiana ed europea a pensare un mondo diverso e a battersi per costruirlo. Ecco perché il successore a cui stanno pensando non potrà essere (né lo poteva quando, poi, lui fu rieletto) qualcuno che interpreti la Costituzione come un arco teso verso giustizia e libertà, ma uno per cui sia una foglia di fico in difesa dei privilegi dell’esistente; un Presidente complementare e funzionale al disegno di cui Renzi è, in Italia, l’esecutore.

La dura materialità della crisi, certo, può cambiare le carte in tavola; ma nessuna crisi da sola ha mai – proprio mai – determinato una svolta progressiva.