Alla fine il Quirinale si è deciso a intervenire nel dibattito che da settimane infuria sulla sorte del suo inquilino. Napolitano fa sapere che non lascerà prima del 31 gennaio, termine del semestre europeo. Poi «rifletterà autonomamente», ma le sue decisioni «devono essere tenute completamente separate dall’attività di governo e dall’esercizio della funzione legislativa». E’ un sostegno alla corsa di Renzi, frenata in buona parte proprio dalle imminenti dimissioni del presidente. Ma è un sostegno più apparente che reale, essendo ovvio l’intreccio tra le decisioni di re Giorgio e le attività di governo e Parlamento.

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Renzi comunque non si arrende e prova a forzare i tempi della legge elettorale. Ma anche se la forzatura interna al Pd avesse successo, la missione resterebbe impossibile. Il termine per la presentazione degli emendamenti è fissato per il 10 dicembre, poi bisognerà attendere quelli del relatore. Prima di lunedì 17 non si comincerà a votare. Negli stessi giorni, però, il Senato deve per forza licenziare la legge di stabilità: significa che l’aula dovrà essere convocata per gran parte del tempo e la commissione non potrà quindi lavorare. Per votare gli emendamenti ci saranno pochissimi giorni, e quand’anche la minoranza del Pd si rassegnasse alla resa resterebbero in campo tutti gli altri partiti, nessuno dei quali, neppure l’Ncd e meno che mai Fi, ha fretta. Anche solo agguantare il voto della commissione prima della pausa natalizia sarà un’impresa. Il sogno, che Renzi ancora accarezza, di almeno incardinare la legge in aula prima di Natale è un miraggio.

Se il premier riuscirà a ottenere il voto della commissione, come è probabile ma non certo, avrà una chance di arrivare entro il 31 gennaio al varo della legge in Senato (che equivale nella sostanza al varo tout court). Possibilità peraltro esigua. Quando il Senato riaprirà i battenti, il 7 gennaio, Napolitano avrà annunciato le sue dimissioni, che diventeranno ufficiali il 20 di quel mese. Non si parlerà d’altro che del nuovo presidente. Con Fi decisa a rallentare almeno quanto Renzi è determinato ad accelerare e con la battaglia del Quirinale dietro l’angolo, approvare l’Italicum a palazzo Madama prima del torneo presidenziale sarebbe un mezzo miracolo. Se invece la nuova legge non dovesse essere approvata neppure in commissione per dicembre, ogni speranza di chiudere entro gennaio svanirebbe.

Il senso di quest’ennesima forzatura del premier è quindi difficilmente comprensibile. Potrebbe trattarsi di un tentativo di blindare il passaggio in commissione entro quest’anno. Ma nel Pd circola anche un’altra e meno “innocente” spiegazione: se l’inquilino di palazzo Chigi vuole tentare la carta delle elezioni anticipate in primavera, deve poter dire di aver prima fatto tutto il possibile per ottenere i risultati che considera obbligatori con queste camere. La forzatura di ieri sarebbe quindi propedeutica a costituirsi una sorta di “alibi” per il voto.

Ma anche in questo caso, la corsa al voto sarebbe di quelle a ostacoli. Bisognerebbe eleggere un presidente disposto a sciogliere le camere senza resistenze, e difficilmente un capo dello Stato scelto anche da Berlusconi lo sarà. Se l’Italicum sarà stato approvato, bisognerebbe poi estenderlo al Senato, essendo una legge valida solo per la Camera. Il governo considererebbe addirittura l’ipotesi di farlo per decreto, per quanto assurdo possa apparire. Ma ripartire le preferenze e il premio di maggioranza su scala regionale, come è costituzionalmente obbligatorio per il Senato, non sarebbe ugualmente né facile né breve. La strada maestra (si fa per dire) resterebbe dunque il voto con il consultellum, la legge partorita dalla Consulta. Ma quella legge abborracciata non permette a Renzi di ottenere quel che dalle elezioni si aspetta: la possibilità di governare da solo e di mettere sotto controllo la sua truppa parlamentare. La mossa di ieri, in sostanza, mira forse alle elezioni anticipate, ma soprattutto rivela la disperazione di un leader che ogni giorno di più si trova nel vicolo cieco.