Il lungo colloquio del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con Eugenio Scalfari è, per due terzi, un documento storico di grande rilievo (guarda il video qui).

Non sono le confessioni di un pentito, tutt’altro, ma questa, a differenza di molte uscite del gruppo dirigente che ereditò il Pci, è una memoria che non fissa improbabili retrodatazioni di convincimenti, e non dà luogo neppure a flagellazioni postume.

Con una memoria quasi sempre precisa e ammirevole – salvo incertezze sulla datazione del Cominform – si delinea un percorso non solo verosimile ma vero nella sua sostanza storica. Perché il Pci, e soprattutto nel Mezzogiorno, fu un partito che si espresse nei modi e nei toni che sono propri di Napolitano e ancor prima furono di Giorgio Amendola, di cui Napolitano non è però semplice appendice o continuazione. Nel quale convivevano anime e sensibilità diverse, nessuna delle quali può legittimamente e credibilmente definirsi «autentica» o esclusiva. E che fu anche un partito con un gruppo dirigente di grande e non improvvisata cultura (si legga il sorprendente carteggio tra Antonio Giolitti e Delio Cantimori tra il ’46 e il ’55, recentemente pubblicato su «Italia contemporanea», per rendersene conto).

Quando Napolitano rivendica alla tradizione del comunismo italiano l’acquisizione della distinzione crociana tra liberalismo e liberismo, ignota ad altre culture, esprime una verità, così come la riduzione del liberalismo, in buona sostanza, a precondizione condivisa da forse politiche che poi possono e devono dividersi sulle opzioni da sostenere. Per cui anche il «non possiamo non dirci liberali» non è a ben vedere scoperta recente ma uno dei presupposti della stessa Carta costituzionale, che muove dal riconoscimento e dall’affermazione delle libertà fondamentali ma poi procede oltre quell’orizzonte di partenza.

Dove si registra però il corto circuito tra passato e presente è nella rievocazione degli anni Settanta, già posti più volte dal Presidente come una sorta di preambolo delle scelte compiute di recente. Intanto nell’adeguamento del passato al presente, dove la «solidarietà nazionale» tra 1976 e 1979 diviene semplice governo per l’emergenza, spogliato degli elementi «mitici» quali la volontà di Berlinguer di introdurre «elementi di socialismo» nella società italiana e dell’«involucro ideologico» del «compromesso storico». Ma tolti questi elementi non rimane più nulla della storia e della cultura del Pci di quegli anni, e diviene ancora più stridente e improbabile l’accostamento tra Berlinguer, Moro, Zaccagnini e Andreotti ai variegati protagonisti del patto di governo attuale.

Ancor più discutibile è l’adeguamento di questo presente a quel passato, letteralmente incomparabile: per tanti motivi, che non è il caso di rievocare perché presenti nella memoria di tutti. Ma su un aspetto di questa discrepanza in particolare si dovrebbe tornare, a maggior ragione quando il chiacchiericcio sulla riforma istituzionale sembra mettere in gioco il carattere di democrazia parlamentare del nostro ordinamento.

Abbiamo detto che la storia del Pci fu fatta di molte sensibilità. Quando si parla dei governi di solidarietà nazionale si tende sempre a dimenticare che uno dei protagonisti assoluti di quella stagione fu Pietro Ingrao, che non fu «gruppettaro e movimentista» come viene definito in maniera superficiale da Scalfari, ma fu uomo delle istituzioni, Presidente di una Camera che discuteva e legiferava in piena autonomia e libertà e che varò alcune delle leggi civili e sociali più importanti di quel decennio.

Con questo non si vogliono rinfocolare vecchie contrapposizioni ed etichettature che non avevano senso già allora e ancor meno ne possono avere oggi nei ricordi imprecisi e sommari di quel tempo. Ma è proprio per rimarcare che Napolitano, che pure si è dichiarato – a ragione – uomo cresciuto nel Parlamento, assai più che nel partito o nelle istituzioni, sembra non avere avuto fiducia nella centralità del Parlamento, sia pure svilito nelle sue modalità di elezione e nella sua composizione. A quella però bisognerà tornare, se non si vuole uscire in maniera definitiva dalla nostra democrazia repubblicana.