Due indizi fanno una prova, e se sono tanto pesanti non ne serve un terzo. Così deve aver pensato il Cavaliere ieri mattina leggendo il fondo di Stefano Folli, commentatore di rango appena passato dal Sole 24 ore a Repubblica, dall’eloquente titolo «Perché Napolitano lascerà il Quirinale a fine anno». Il ragionamento che svolge è chiaro: il presidente ormai novantenne è stanco e deluso, le riforme vanno più lente di quello che aveva chiesto nel discorso di insediamento del 22 aprile 2013, e – last but not least – «egli non porterebbe mai il paese a elezioni anticipate».

Ecco, se il primo indizio della voglia di votare di Renzi è stato l’aut aut sull’Italicum, il secondo è una voce molto autorevole che informa – di fatto – dell’ipotesi di un prossimo scioglimento delle camere. Il Mattinale, house organ forzista della parrocchia di Renato Brunetta, ne è certo: in questa scelta del Colle «c’è una certa profezia, che l’accelerazione improvvisa del premier nel sistemare a comodo suo la legge elettorale svela». Le condizioni per tornare al voto, e cioè una legge elettorale fungibile, sono improbabili da raggiungere senza il consenso di Berlusconi, leader di un partito frantumato che però tornerebbe compatto contro il voto anticipato. Ma se il Cavaliere non accetterà la nuova versione dell’Italicum, la più sfavorevole a Forza Italia, per il nuovo inquilino del Quirinale Renzi potrebbe avere come interlocutori privilegiati i grandi elettori a 5 stelle. Coincidenza vuole – una coincidenza poco casuale – che ieri sul Fatto anche Sergio Chiamparino svolge lo stesso tema, nascosto dietro una provocatoria autocandidatura al Colle: fra il Pd e i 5 stelle «spazi e margini di intesa ci sono. Sicuramente più che con Berlusconi, perché non c’è alcuna compatibilità genetica fra noi e loro». Chiamparino fa anche un’altra provocazione: rilancia il nome di Prodi come «naturale per un’operazione del genere». L’ex presidente in realtà è indigesto al partito dei 101 (i grandi elettori Pd che lo impallinarono a voto segreto). Ma è un nome-feticcio contro la destra. «Con Prodi presidente ci toccherebbe andare all’estero», aveva gridato Berlusconi in piazza a Bari proprio alla vigilia del voto sul Colle. Ma anche qui il messaggio di Chiamparino è chiaro: Pd e grillini possono convergere su un nome, e certo sarebbe quello più ostile al Cavaliere.

Renzi si tiene alla larga dalla polemica: Napolitano «è e resta una assoluta garanzia per questo paese e un punto di riferimento molto importante. Non mi preoccupo del futuro del Capo dello Stato. Mi preoccupo di fare bene il mio lavoro», dice a SkyTg24. Ma a Arcore l’antifona è chiara. Si incarica di farlo sapere Giovanni Toti: la discussione «è largamente prematura», dice, anzi il capo dello stato «al momento è un elemento di stabilità e se sta lì non è male». La partita è quella del futuro: il nuovo presidente si troverà a gestire la cosiddetta «agibilità politica» del Cavaliere, quando sarà, farà da garante alle eventuali leggi che toccano le sue aziende, e al possibile scioglimento delle camere. Per questo le anime forziste, anche quelle scatenate contro le condizioni capestro del nuovo Italicum, stavolta tacciono.

Straparla invece Grillo, che teme che l’ipotesi di un presidente condiviso con il Pd possa ingolosire i suoi. Un presidente «eletto(si) per la seconda volta», avverte dal blog, «che decide lui quando dimettersi ricattando di fatto il Parlamento», insieme a Renzi «un ciarlatano mai eletto in elezioni politiche» e a Berlusconi «capo di un partito creato da Dell’Utri che sconta 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa» sono «il trio Lescano» mosso dalla «catena degli interessi di chi li ha messi lì («massoneria, mafia, poteri finanziari, Bce» e via elencando). È quella che bisogna spezzare». Berlusconi può dunque partecipare alla scelta del nuovo presidente. Ma in cambio deve consegnarsi mani e piedi a Renzi, concedendogli una legge elettorale che dia al premier la possibilità di andare presto al voto.