Stanze asettiche si affacciano sul Vesuvio o sui moli industriali della città di Napoli, il Vomero svetta alto sopra la città, uno scorcio urbano e naturale che ha affascinato scrittori, poeti, artisti, imperatori e regine, ma che agli occhi dei profughi ucraini è solo un posto sicuro dove stare in attesa di essere ricollocati presso amici o parenti.

«Abbiamo dormito in garage con le bambine per tre giorni perché alla Tv ci hanno detto di rifugiarci nei seminterrati, ci dava una parziale sicurezza ma il suono delle bombe arrivava anche là», afferma Irina che è arrivata all’ospedale del Mare a Napoli con le figlie Valentina e Nadia di 12 e 9 anni. Sono di Nadvirna a pochi chilometri da Leopoli, nell’Oblast Ivano Frankivs’k dell’omonimo aeroporto, il primo ad essere distrutto dall’aviazione russa secondo la ricostruzione di Irina. «Avevano paura, eravamo spaventate quando sentivamo gli aerei. Siamo fuggite via ma siamo dovute rimanere 48 ore alla frontiera prima di poter entrare in Ungheria, c’erano tantissime persone che erano scappate dalla guerra, c’era una lunga fila. Abbiamo dormito sul bus tutto il tempo», descrive Irina.

La donna, di 34 anni, e le figlie hanno provato fino all’ultimo a rimanere, ma poi gli avvenimenti hanno preso un verso che è visibile in mondovisione. Sua madre Ivana Matveychuk che vive a Quarto di Napoli racconta la sua versione: «Il giorno 24 febbraio alle 5 del mattino italiane loro mi hanno chiamato e gridato «Mamma, mamma, la guerra, ho paura, ho paura per i miei figli, mamma ho paura, che succede?». La stessa cosa ha detto anche l’altra mia figlia che a breve mi raggiungerà anche lei a Napoli con altri tre nipoti. Dopo queste parole mi sono detta che dovevo fare tutto il possibile per loro. L’unica cosa che mi fa male è che mio padre Oreste di 85 anni non è voluto venire, l’ho implorato, ma diceva che voleva rimanere per la patria. A 85 anni ogni mattina alle 6 si alza e va ad aprire la chiesa per permettere alla gente di pregare appena finisce il coprifuoco, dice che è un modo per aiutare la propria città. C’era Irina con lui, mi ha chiesto di perdonarla perché è dovuta fuggire senza di lui, lo ha fatto per le proprie figlie, certo ci sono altri parenti ma quelli più stretti sono qua. Quando hanno avuto la possibilità di venire hanno preso il pullman e attraversando la frontiera ungherese sono riuscite ad arrivare».

«Mi sono sentita persa, triste di lasciare mio padre e la mia casa, non avevo capito che dovevamo venire in Italia e rimanere qua, ci sono rimasta male», afferma Valentina di 12 anni, quando la sorella di 9 anni, Nadia, sente parlare del papà scoppia in lacrime. Mentre cerca di calmare la figlia, Irina chiede se al Residence hanno una bambola da dare alla bambina. Dopo una decina di minuti le portano un peluche, il pianto è terminato e la bimba sorride con la gioia negli occhi alla vista di un compagnetto peloso da stringere durante la notte.

Ivana non è l’unica che cerca di portare la propria famiglia in Campania, anche perché la provincia di Napoli ospita la più grande comunità ucraina d’Italia, circa 25mila. Ciro Verdoliva, direttore generale Asl 1 Napoli e responsabile del Residence dell’ospedale del Mare spiega l’organizzazione del centro: «Siamo un hub, un punto di arrivo dove abbiamo adibito un’ala alla polizia di stato per la parte burocratica, ai profughi viene dato un STP (Straniero temporaneamente presente), un codice che permette al rifugiato di restare in Italia per 6 mesi e usufruire dei servizi nazionali tra cui la sanità pubblica. Accanto al desk della polizia ci sono le postazioni per il tampone covid e con la protezione civile Campania stiamo adibendo tende esterne alla struttura per effettuare il vaccino». Infatti, secondo le statistiche solo il 35% della popolazione ucraina è vaccinata, situazione che allunga la procedura di accoglienza. «Le stanze hanno due posti letto con bagno, doccia, TV e wi-fi, agli ospiti vengono garantiti tre pasti al giorno. La struttura è prettamente dedicata a quelle famiglie che non hanno una dimora o parenti dove stare. Per quelle più numerose si apre una porta comunicante, sistemazione simile a quella adottata per le famiglie dei profughi afghani».

Verdoliva sottolinea la differenza durante l’emergenza afghana quando il residence era al completo ospitando per circa un mese da 168 persone. «Con gli afghani era più difficile per la differenza di cultura, ma anche più facile perché era tutto già programmato da mesi. Invece con la situazione ucraina è tutto all’ordine del giorno e ci aspettiamo da un momento all’altro una grande ondata di profughi», conclude. «Gli afghani erano per la maggior parte nuclei familiari interi, invece con gli ucraini si tratta di famiglie lacerate e divise poiché gli uomini sono rimasti al fronte, arruolati nell’esercito, a meno che non abbiano delle patologie pregresse e complicate e quindi sono fuggiti», afferma Beniamino Picciano, medico responsabile del distretto sanitario 28 di Scampia e prestato all’operazione per i profughi ucraini. «Ci sono persone che hanno il diabete o sono in dialisi, sono scappati prendendo solo un certo numero di medicinali, risultati insufficienti per l’intero viaggio fino a Napoli! Prima parlavo con una giovane ragazza di 25 anni che ha un tumore alle ovaie che ha dovuto interrompere il ciclo di medicine, ora bisogna riprendere l’intera terapia, ma in quel momento aveva più bisogno di parlare con qualcuno, quindi capisci che è la fragilità che esplode, una fragilità che prende tutto l’essere. Che cosa mi ha detto? ’Sentivo voglia di un abbraccio, mi sono commossa davanti a tanta gentilezza’, l’unica cosa che voleva era appunto un abbraccio, in alcuni casi bisogna saper svestirsi dell’abito di dottore. Ieri invece abbiamo dovuto affrontare due casi di bambini autistici di cui uno molto grave. La situazione non è semplice sotto l’aspetto medico. Ecco, qui c’è un primo intervento per cercare di costruire un quadro clinico di tutte le persone che passano presso il Residence. Questo agevola il successivo lavoro delle strutture sanitarie regionali che dovranno prendere in carico i loro casi», conclude Picciano.

Alexi Ivanof di 17 anni di Odessa cerca degli abiti al seminterrato del Residence dove è stato adibito dalla Protezione Civile un mercatino gratuito con vestiti, scarpe, pannolini, camicie … tutto rigorosamente nuovo per evitare possibili contagi da Covid-19. «Siamo partiti da Odessa per Lavrif, poi siamo arrivati in Polonia e da lì è partito il viaggio fino a Napoli. Con mia madre e mia nonna continuavamo a dire a mio fratello Kyrylo di 5 anni che era solo un tour per visitare delle città, per lui siamo come dei viaggiatori: prendiamo i pullman, viaggiamo e visitiamo nuovi posti e nuovi paesi, lui lo trova divertente, ride, non capisce la situazione che lo circonda», afferma inflessibile Alexi. Ovviamente ha dovuto interrompere la scuola, spera di iniziare nuovamente a frequentarla anche in Italia, lo stesso dicasi per il fratellino, per una parvenza di normalità, ma i tempi per gli adolescenti molto probabilmente saranno più lunghi che per i bambini della primaria. «Sì, certo, quando tutto sarà finito voglio ritornare in Ucraina, ho amici e parenti che sono ancora là», afferma convinto. Non ha mai conosciuto suo padre, è lui il capofamiglia con tutto il peso di questa responsabilità.

Viktoria Covalchock viene da Leopoli, era in fila presso lo sportello della polizia del Residence per ottenere il visto, poi si sposta vicino alla reception dove sua figlia di 8 anni gioca con una barbie, topolino, altri peluche e con dei colori per disegnare. «Ero terrorizzata dalla guerra sono venuta con lei e il fratello di un anno. Nella notte ascolti le sirene di allarme per il bombardamento, così ci siamo riparati nel garage del seminterrato. Mia figlia piangeva, anche quando siamo venuti a Napoli. Quando eravamo nel bus lei ha sentito come un fischio della frenata del pullman e ha pensato che fosse l’allarme antibomba, l’ho calmata e le ho fatto capire che era solo il bus. Quando siamo arrivati ha incominciato a piangere perché il papà è rimasto in Ucraina, non sapeva se fosse morto o se stesse facendo qualcosa, ora per calmarla lo chiamiamo tre volte al giorno. Per lei è una tragedia enorme perché è grande abbastanza per capire. Dai paesi europei cosa ci aspettiamo? Aiuto, per fermare questo massacro, forse attraverso la diplomazia, per aiutarci, per parlare e far intendere a Putin che non abbiamo fatto nulla per meritare questo. Nel Donbass c’era la guerra, ma non l’abbiamo fatta noi. Putin dice che ci vuole proteggere, ma da cosa? Gli ucraini e i russi sono come fratelli, ma secondo me non hanno informazioni di quello che accade in Ucraina, non hanno un’informazione libera», afferma. Viktoria ha la madre che vive a Napoli da molti anni «Siamo dovuti scappare, ma quando la guerra sarà finita prenderò i bambini e tornerò a casa, anche se dovessero vincere i russi: c’è la mia famiglia, mio marito, gli amici … c’è tutta la mia vita là».

Il pomeriggio trascorre velocemente, nel frattempo gli operatori della protezione civile hanno montato 3 delle 5 tende totali fuori la struttura. Napoli e tutta la regione si aspettano un’onda di profughi inimmaginabile. Al momento sono le famiglie ucraine che lavorano ormai da diversi anni nel territorio che accolgono i profughi, li accompagnano al Residence per ottenere l’STP, ma nelle prossime settimane arriveranno ucraini che non hanno né familiari né amici, quindi, secondo quanto afferma Verdoliva, la regione si sta preparando ad allocare appartamenti per accogliere il nuovo flusso.