Un funzionario di banca specializzato in transazioni estere che sfila giacca e cravatta, ora spirito e corpo di una tifoseria, anzi di una città, a quasi 60 anni. Napoli in questi giorni respira intorno a Maurizio Sarri. Pende dalla sua eventuale riconferma sulla panchina azzurra, si agita sui club che potrebbero saldare la clausola rescissoria che lo lega al club di Aurelio De Laurentiis, portandolo via dopo tre anni, chissà dove. E organizza pure petizioni per soffiare dietro alla conferma del tecnico toscano anche per la prossima stagione. Un amore. Un flusso – ricambiato – di sentimenti. Un processo osmotico ad alto voltaggio. «Sarri uno di no», recitava di recente uno striscione allo stadio San Paolo. E finisce solo nelle statistiche che Sarri è nato a Bagnoli, la traccia operaia della città, ma ci ha vissuto poco, pochissimo, prima di finire in Toscana, casa sua per oltre 50 anni. Per la Napoli del pallone e forse non solo, dopo Diego, ora c’è lui. Incastonato nell’orgoglio di un popolo, come Pino Daniele, Massimo Troisi, Totò. In un’oasi protetta. Più amato di Cavani, di Lavezzi, di Higuain, di Hamsik, più di Benitez, lo spagnolo d’Inghilterra che pure aveva diviso in rafaeliti e non.

Piace, emoziona, spesso poco misurato, scapigliato onesto, appassionato. Uno che sbaglia, un comunicatore d’istinto, tra passione e parolacce, creatività e rigore scientifico, nel suo gioco di triangoli che ha incantato anche l’Europa. Allenamenti, drone, il libro di Bukowski sul comodino che spariglia gli appunti sulla squadra avversaria, elettore ideale di una sinistra che non c’è più. E nell’intreccio con Napoli c’entra nulla la tuta che indossa in panchina, spesso feticcio agitato dai suoi haters. Nulla scalfisce, è amato lo stesso, giovani e meno – su Facebook si moltiplicano i fan del gruppo Sarrismo Gioia e Rivoluzione, nato tre anni quando il Comandante prima di una gara di Champions League in Danimarca disse di credere che «in 18 persone si possa fare un colpo di Stato e prendere il potere», -, nell’esibizione fisica dei suoi difetti. I napoletani poi conoscono il percorso del perdono, almeno nel pallone. Al Diez hanno amnistiato di tutto, ritardi, eccessi, chili in più, allenamenti saltati, anche un finale di sceneggiatura che avrebbe potuto intaccare sette anni di magie.

E invece. Diego viso, faccia di una città che si schiera sempre contro il potere, incarnato dalle squadre del Nord, specie della Juventus. E Sarri, che vede Maradona come idolo assoluto, ha raccolto il testimone. Si espone, denuncia, non sempre a ragione. Quel metterci la faccia, eroe del popolo senza cadute nel populismo, forse conta più della bellezza stordente del suo Napoli, del gusto della bellezza espresso in tre anni di gol e spettacolo, senza trofei. Due secondi posti, la sfida perduta all’ultimo con la Juventus, definita«più potente» dallo stesso Sarri. Per un amore puro, degno dello Stilnovo, che per essere sublimato non ha bisogno di un titolo esposto in una vetrina. Sarri è riuscito a far accettare alla gran parte dei napoletani che lo sport sa andare oltre le indicazioni degli almanacchi. Che conta anche la memoria, l’emozione. Sia che resti ancora a Napoli oppure prenda l’aereo, Sarri è entrato nella «schiera degli angeli»,, come si dice a Napoli. Ed è il titolo che nessuno potrà mai portagli via.