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Napoli, Beni comuni addio: il Comune li vuole mettere sul mercato

Napoli, Beni comuni addio: il Comune li vuole mettere sul mercatoNapoli, il Municipio

Un fondo creato con Invimit (Spa del Mef) gestirà 600 immobili pubblici. A rischio le gestioni dal basso Il 25 aprile al parco Ventaglieri per dire no alla guerra e al militarismo e per discutere di usi civici

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 24 aprile 2022

A Napoli il 25 aprile verrà declinato lungo quattro assi: no alla guerra e al militarismo; libertà di movimento per tutti; no al razzismo, fascismo e sessismo; difesa del patrimonio pubblico. L’appuntamento è dalle 12.30 al parco Ventaglieri. Il primo workshop alle 15 sarà su «Beni comuni e usi civici versus privatizzazione della città». A preoccupare sono i piani del sindaco Manfredi per sanare il deficit. Sul tavolo c’è l’intenzione di creare una fondazione a cui affidare la gestione di beni culturali come il Maschio Angioino. Intanto è già stato firmato l’accordo con Invimit (Spa del Mef) per la creazione di un fondo (70% comune, 30% alla Spa) per la valorizzazione del patrimonio immobiliare della città. Si tratta di uno dei punti del Patto per Napoli e prevede la sua messa a reddito.

Per adesso nel fondo andranno 600 beni tra cui pezzi di pregio come la Galleria Principe e Palazzo Cavalcanti. Nel radar del comune sono finiti anche l’ex Asilo Filangieri, il Giardino liberato, il Lido Pola, Villa Medusa, l’ex Opg Je so’ pazzo, lo Scugnizzo Liberato, Santa Fede Liberata, l’ex Scuola Schipa. Immobili che, attraverso una serie di delibere dell’amministrazione de Magistris, sono stati dichiarati beni comuni di uso civico, gestiti da assemblee aperte alla comunità, senza scopo di lucro.

Prima Manfredi ha spiegato: «Ci sono profili di responsabilità erariale. Abbiamo spazi pubblici occupati su cui non c’è un chiaro affidatario. Una situazione su cui c’è l’attenzione della Corte dei conti». Poi ha mandato l’assessora Lieto a spiegare le intenzioni del comune. L’idea sarebbe quella di valorizzare pure questi immobili, anche attraverso la creazione di servizi, in modo da incamerare fondi per la manutenzione. Il mezzo potrebbe essere la coprogettazione ma il risultato è comunque l’inserimento in un meccanismo di mercato, i modelli Milano e Bologna.

Il percorso amministrativo dei «beni comuni emergenti» è iniziato nel 2012, dopo 10 anni non ci sono state pronunce o condanne per danno erariale. Adriano, ricercatore di Scienze politiche e attivista dell’Asilo, spiega: «Il percorso che ha portato all’uso civico dei beni comuni è stato un esperimento di democrazia partecipata, abbiamo elaborato nuovi strumenti anche giuridici e prospettive istituzionali».

Sono spazi occupati? «No. Sono beni pubblici che restano pubblici – prosegue – e non c’è un interesse privato ma un uso civico sancito da delibere: una comunità di riferimento, radicata sul territorio, decide sulla gestione degli spazi. Nessuna forma di esclusione in base all’appartenenza, il rapporto comunitario e inclusivo garantisce che gli spazi restino aperti a chi li vuole abitare. Nonostante l’austerità, la pandemia, la crisi economica sono ancora vivi mentre intorno c’è uno scenario devastato dal disagio sociale».

In che modo restano aperti alla comunità? «La nostra azione si articola alla luce della morfologia sociale e di classe del quartiere, intercettando la parte più complessa. Metterci i privati produrrebbe nuova esclusione degli invisibilizzati». Messa a reddito degli spazi pubblici, lo sfratto del Gridas di Scampia, beni culturali a pagamento: nel bilancio nessuno ha messo i costi sociali.

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