Dopo che il mistero più totale l’aveva avvolto per tutta la lavorazione, ieri è stato proiettato Mia madre, l’ultimo progetto cinematografico di Nanni Moretti – nelle sale il prossimo giovedì 16 aprile e fortemente candidato alla Croisette: «Da Cannes accetto tutto», risponde così a chi gli chiede se per Mia madre, avrebbe accettato il solo concorso o anche sezioni non competitive. Un film ispirato dalla perdita della madre del regista avvenuta durante il montaggio di Habemus Papam. Ed infatti l’alter ego di Moretti – che qui non ha il suo volto né il suo nome – è una regista, Margherita (Buy) che lavora ad un film mentre affronta l’inesorabile deteriorarsi delle condizioni di salute della mamma Giulia Lazzarini).A presentare il film, insieme a Moretti, ci sono la protagonista; l’esordiente Beatrice Mancini – nella finzione la figlia di Margherita – e l’attrice teatrale Giulia Lazzarini – sesta madre cinematografica di Moretti ma alla sua prima esperienza con il regista. «Non avevo mai incontrato Nanni prima – racconta infatti – ma ero molto amica di Luisa Rossi, che è stata la sua prima ’madre’ in Ecce Bombo. Ci siamo visti per la prima volta nel suo ufficio, dove abbiamo bevuto un the caldo, e poi mi ha accompagnata a casa passando davanti all’isola Tiberina, dove c’è l’ospedale in cui è nato suo figlio. E da quel momento ha iniziato a raccontarmi un po’ del film…».

Nel film il suo alter ego è interpretato da Margherita Buy. 

Non mi ha mai sfiorato l’idea di essere il protagonista di questo film. Già da un po’ non lo faccio, e felicemente. Prima mi divertivo a portarmi dietro delle caratteristiche del mio personaggio; ora non ho più questa fissazione di costruirlo film dopo film. Margherita si è caricata sulle spalle tutto il peso del lavoro: su 70 giorni di riprese è mancata solo uno, in cui abbiamo girato una scena che poi ho tagliato.

Tuttavia l’aspetto autobiografico è sempre presente… 

Per ora, per questi «primi» film della mia carriera, è il mio modo di fare cinema, di raccontarmi. Nella sequenza davanti al Capranichetta, in cui il fratello interpretato da me dice a Margherita di rompere almeno uno dei suoi duecento schemi, è come se parlassi a me stesso. Ed anche il disagio è lo stesso: col passare del tempo pensavo che mi sarebbe venuto «il pelo sullo stomaco», espressione terribile, invece andando avanti il senso di disagio peggiora…

Anche il personaggio di Turturro è ispirato alla realtà? 

In una scena urla «voglio andare via da qui voglio tornare nella realtà!» Sono parole pronunciate realmente da Michel Piccoli mentre giravamo Habemus Papam, dopo che avevamo lavorato a lungo di notte, e lui di giorno non riusciva a dormire.

Il film è costruito su più livelli… 

Mi piaceva che lo spettatore vedendo una scena non capisse subito se si tratta di un ricordo, di un sogno o della realtà: tutto convive nel personaggio di Margherita con la stessa immediatezza; in particolare il senso di inadeguatezza verso il lavoro, la madre, la figlia

E poi c’è il film nel film, gli operai e la fabbrica, che però non assomiglia ad uno dei suoi lavori. 

Volevo che ci fosse uno stacco tra la vita privata di Margherita ed il suo film, un contrasto tra un lavoro molto solido, strutturato, e la sua personale mancanza di solidità. Lei sta sempre da un’altra parte, quando è insieme alla madre pensa al set, quando è sul set pensa alla madre o a sua figlia. Margherita non è mai presente fino in fondo.

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Come ha affrontato il tema del lutto? 

In La stanza del figlio esorcizzavo una paura, qui parlo di un’esperienza che è comune a tante persone. La morte della madre è un passaggio importante della vita, ed io volevo raccontarlo senza sadismo nei confronti dello spettatore. Ma quando si fa un film si fa solo quello: si lavora ai dialoghi, alla regia, al montaggio, per cui il tema che stai trattando non ti investe con tutta la sua forza. Anche quando il sentimento è molto forte tendo a pensare che il regista non venga travolto. Ma forse non sono d’accordo.