Per salire le Marches  ha scelto L’allegria scritta da Jovanotti e cantata da Gianni Morandi, la proiezione del suo Tre piani, la sera sarà molto  applaudita, ma quando lo incontriamo è ancora pomeriggio, fa caldo, la Croisette è blindata sotto al sole, e l’Italia non è ancora campione d’Europa – a Cannes il tifo per gli azzurri era totale.

Nel Pavillion Italia, dentro al controllatissimo Hotel Majestic,  Nanni Moretti è solo al tavolo della conferenza stampa di questo film annunciato oltre un anno fa, e già destinato allora al concorso di Cannes poi cancellato dalla pandemia.

Loro hanno aspettato, ed eccolo qui, vent’anni dopo la Palma d’oro a La Stanza del figlio, e alla fine di un anno che ha visto la totale chiusura delle sale nel mondo e la crescita delle piattaforme.

Tre piani uscirà in Italia il 23 settembre, lui non ha mai pensato allo streaming, la sala era la destinazione pensata e voluta per il film. “La considero una tappa fondamentale e non volevo saltarla” spiega. E aggiunge: “Non ho un pregiudizio nei confronti di Netflix, anzi guardo le serie, dei film. Però il rischio è che gli autori si trovino a lavorare coi propri finanziatori su prodotti che devono soddisfare dei formati e che diventano sempre più uguali in tutto il mondo”.

LA SALA è affollata, Moretti  parla, racconta,  risponde  gentile alle domande, divaga qualche volta appena un po’, chiede l’ora – “Stiamo parlando da molto”.

Racconta di sé che da ragazzo voleva fare il regista e ancora oggi cerca di fare le cose al meglio. “Sono attento ai dettagli dell’intera lavorazione del film, per sarebbe impossibile altrimenti”. E ai più giovani consiglia di studiare, di guardare film, di  fare gruppo: “La solitudine a lungo andare può rivelarsi fastidiosa”.

Nell’attesa della serata, su Instagram ha messo il suo viaggio verso Cannes, montato nella notte in attesa delle prove tecniche al Palais – che sono state alle 3,30. Emozionato? “È la prima volta che vedrò il film col pubblico, a Roma non lo hanno visto nemmeno con 20 amici e la sala mi hanno detto ha 2134 posti….”.

Tre piani è ispirato al libro dello scrittore israeliano Eskhol Nevo – a cui il film è piaciuto, anche se Moretti con una certa timidezza preferisce non dirlo – che il regista, la sceneggiatura è di Valia Santelle e Federica Pontremoli, trasferisce da Israele in una palazzina borghese romana, abitata da professionisti benestanti e molto occupati dalle proprie vite, il cui sguardo sul mondo sembra limitarsi interamente a sé stessi e ai rituali di quel piccolo spazio dorato del loro condominio.

Dora (Margherita Buy) e Vittorio (Moretti) sono due giudici, il figlio Andrea una sera guidando ubriaco ha ucciso una donna ma non sembra volersi assumere alcuna responsabilità del suo gesto. Chiede ai genitori di aiutarlo anche se li odia, il padre soprattutto, rigido nella sua morale, a cui rinfaccia di avere preteso sempre troppo da lui.

MONICA (Alba Rohrwacher) ha appena avuto una bambina – anzi la sera dell’incidente stava andando a partorire da sola perché il marito (Adriano Giannini) è sempre via per lavoro. Lei vive male l’essere madre senza nessuno con cui parlare, forse è solo un baby-blu o forse è quell’ossessione di diventare come la propria madre, malata di psicosi (è la stupenda Daria Deflorian) da  dopo la sua nascita. Lucio (Riccardo Scamarcio) e Sara (Roberta Lietti) hanno una bambina, Francesca. Molto presi dalle loro professioni l’affidano spesso ai vicini, Giovanna (Anna Bonaiuto) e Renato (Paolo Grazioli), quest’ultimo un po’ svaporato, per i quali è come una nipote visto che la loro, Charlotte (Denise Tantucci) vive a Parigi.

Poi una sera Renato scompare con la piccola Francesca e li ritrovano nel bosco. Lucio non si  dà  pace: e se fosse accaduto qualcosa di male, se l’avesse abusata? Con tutti gli attori Moretti ha fatto delle prove, tranne con Buy – “siamo ormai al quarto film insieme, e lei è la nostra Meryl Streep, può affrontare ogni parte” dice.

E aggiunge: “Non c’è un personaggio che preferisco, in ognuno c’è qualcosa che mi riguarda. Posso dire però che gli uomini rimangono ‘incistati’ nello schematismo delle loro ossessioni mentre le figure femminili sciolgono questi nodi e si aprono alle trasformazioni”.