«Quando uscirai in guerra contro i tuoi nemici, il Signore tuo li metterà in tuo potere e farai dei prigionieri, se vedi tra i prigionieri una donna di avvenente figura e sei preso d’amore verso di lei, te la prenderai in moglie e la condurrai in casa tua».

Questa norma, che si legge in Deuteronomio (XXI, 10-12), fu un tempo recepita dagli eruditi monaci che compulsavano e venivano ricomponendo gli antichi testi, e opportunamente acconciata come una metafora.

Assai bene, infatti, poteva essere adattata ad un ordine di questioni di grande rilievo. Affermatosi il cristianesimo nei confini dell’antico impero, quale, ci si chiedeva, il portato del lascito pagano e in quale considerazione tenerlo? E come, poi, di quella cultura, comporre una motivata repulsa o elaborare una consapevole assimilazione? Quesiti e dubbi (e argomenti) germogliati in un assiduo esercizio di apprendimento dell’antico che impegnano la cultura europea a datare (secondo una convenzione generalmente accolta) dall’epoca carolingia, allorché, non a caso, gli studi dell’eredità classica conobbero in Europa un fervore nuovo.

Tanto che si fanno risalire ai secoli tra il nono e il dodicesimo, per consuetudine, i consolidati antecedenti e le fondamenta di quella veduta culturale che si aprirà compiutamente e si affermerà del tutto quando mette capo all’Umanesimo e al Rinascimento.

Della cultura greca e romana, ovvero della «donna di avvenente figura» per la quale “sei preso d’amore”, ti è lecito, vincitore cristiano, prender possesso, arricchire di lei e con lei, prigioniera pagana (captiva gentilis), la “casa tua”.

Ancora. Quei sapienti monaci, eran soliti confermare e dare ulteriore forza di legittimità alla loro missione culturale facendo ricorso a due passi dell’Esodo. Se con l’immagine della bella prigioniera del Deuteronomio bene illustravano il loro amore per lo studio, con le parole dell’Esodo i monaci potevano alludere ad una valenza politica ovvero alla acquisizione di potere che il dominio della cultura, tesoro prezioso, comporta. E così essi rammentavano il Signore quando, vista l’oppressione del suo popolo in Egitto, dice a Mosè che, al momento di intraprendere il viaggio verso una terra buona e vasta, una terra dove scorre latte e miele, il popolo eletto è da lui autorizzato a portare con sé quei tesori egiziani: «La donna chiederà alla sua vicina e a chi abita nella sua casa oggetti d’argento, oggetti d’oro e vesti: ne ricoprirete i vostri figli e le vostre figlie e spoglierete l’Egitto» (Esodo II, 22).

E così: «I figli di Israele fecero come aveva detto Mosé e chiesero agli Egiziani oggetti d’argento, oggetti d’oro e vestiti. Il Signore fece trovare grazia al popolo agli occhi degli Egiziani, che accolsero le loro domande. E spogliarono gli Egiziani» (Esodo, XII, 35-36). Se ne fecero eredi.

Una terza immagine metaforica relativa al nostro tema e destinata ad una lunga fortuna, dobbiamo a quegli studiosi monaci. Essa ci è riportata da Giovanni di Salisbury nel suo Metalogicon, redatto intorno al 1159. Giovanni la attribuisce a Bernardo di Chartres: «Diceva Bernardo di Chatres che noi siamo come nani sulle spalle di giganti (nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes), sì che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non per l’acutezza della nostra vista o per l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sostenuti e portati in alto (in altum subvehimur et extollimur) dalla statura (magnitudine) dei giganti» (Metalogicon, III, 4).

Le tre metafore si congiungono opportunamente in un insegnamento che vuol essere chiaro. Sono immagini relative alla trasmissione delle conoscenze che provengono dal passato. Invitano a riflettere sui modi della loro acquisizione e ne mostrano l’adeguato possesso in virtù di una loro elaborazione critica ulteriore. La recezione del patrimonio di cognizioni che sono state acquistate nel corso del tempo dalle generazioni precedenti è un compito che va perseguito con diligenza estrema.

Nulla di quanto resta del passato e perviene alle nostre mani va da noi disperso. Al contrario. Con disposizione amorevole va non solo preservato ma, all’opposto dell’inerte deposito, va reso apprendimento vivo tramite un processo di continua appropriazione.