Vincitrice del Caine Prize 2015 per la sezione africana con il racconto The Sack, Namwali Serpell si è imposta sulla scena letteraria mondiale con il suo primo romanzo, Capelli, lacrime e zanzare (Fazi editore, pp. 837, euro 18,50, traduzione di Enrica Budetta), definito da Salman Rushdie «straordinario, ambizioso, evocativo, un libro impressionante, che spazia abilmente tra romanzo storico e fantascienza, muovendosi fra dibattito politico, realismo psicologico e ricco favolismo».

La narrazione ha avvio nel 1904 sulle rive del fiume Zambesi, a poche miglia dalle maestose Cascate Vittoria, in un insediamento coloniale chiamato «Old Drift». Da un fatale errore, i destini dei personaggi si intrecciano in un ciclo di inconsapevoli conseguenze e travolgono tre famiglie di diversa etnia, generando così un «Grande romanzo zambiano», tra amori proibiti, travagliate vicende politiche e meraviglie tecnologiche.

Nelle opere di autori della diaspora africana, riferimenti più o meno espliciti alla tratta schiavistica transatlantica sono una costante, ciò non avviene apparentemente in «Capelli, lacrime e zanzare».
No, in questo libro non ce ne sono, infatti. Una delle ragioni per cui scrissi The Sack, che è una sorta di epilogo fluttuante del romanzo, era di contrastare l’idea che ogni citazione di un sacco nella narrativa africana si riferisca in maniera obliqua ai cacciatori di schiavi. Nel mio racconto, il sacco in questione non ha alcuna relazione con la schiavitù o i cacciatori di schiavi o la tratta atlantica. Il mio romanzo include un paio di personaggi minori provenienti dagli Stati Uniti, ma altrimenti non ha connessioni con le Americhe.

Come si definisce in relazione alla sua nazionalità e identità diasporica?
Sono una zambiana per nascita e eredità culturale, più recentemente una cittadina degli Stati Uniti (l’autrice insegna a Berkeley, presso l’Università della California, ndr).

Quando nel 2015 ha vinto il Caine Prize, aveva dichiarato che «la narrativa non è uno sport competitivo» annunciando che avrebbe condiviso il premio con gli altri finalisti, che cosa intendeva?
L’ho dichiarato il mio «ammutinamento», nato da un profondo disagio. È imbarazzante essere posti in questa condizione di competizione con altri scrittori che rispetti immensamente. Ti senti come in una specie di corsa dei cavalli, mentre tutto ciò che vorresti è il supporto reciproco. Da allora ho restituito o condiviso ogni premio vinto. Ad esempio, ho donato il denaro del premio «Arthur C. Clarke» per opere di fantascienza per far rilasciare su cauzione i manifestanti di Louisville, nel Kentucky, dove fu uccisa Breonna Taylor.

La scrittrice Namwali Serpell

Il suo primo romanzo attraversa un lungo secolo della storia dello Zambia ed è una sorta di epica rabdomante che tratteggia le storie intrecciate di tre famiglie in tre generazioni. Perché si è voluta assumere una tale responsabilità e quanto ci ha messo a scriverlo?
L’ho scritto a intermittenza per circa quindici anni, con il maggior sforzo verso la fine. L’ho sempre chiamato ironicamente «Il grande romanzo zambiano», era un gioco con i miei colleghi di corso quando iniziai a scriverlo nel 2000. Forse lo scherzo mi ha resa responsabile in un certo senso, mentre io avevo necessità di fare altro – impratichirmi con la scrittura narrativa, finire il dottorato, leggere più storia e letteratura – per rendergli giustizia.
Capelli, lacrime e zanzare è sempre stato multi-generazionale e questo gli conferisce un carattere epico semplicemente perché ci si muove attraverso un lungo lasso temporale: va dal passato storico al futuro fantascientifico. Ed è anche epico nel senso più originale, un canto cantato, ma da uno sciame di zanzare. Questo ampio spettro mi ha aiutata a considerare quanto le colpe di una generazione influiscano su quelle successive.

Quanto lo ritiene dunque infine rappresentativo della vera storia nazionale e del destino dello Zambia?
Lo Zambia come lo conosciamo non esisteva nemmeno fino al 1964 – e ciò avvenne dopo esser stato combinato per almeno un decennio in una federazione con altri due territori britannici (la Rhodesia e il Nyasaland), e molti decenni prima fu un protettorato chiamato «Rhodesia del Nord», e così via. I confini intorno a questa regione sono stati fluttuanti da quando i Bantu per primi migrarono nella zona nel 300 d.C. C’è uno strano angolo ortogonale nel nord-ovest che pare sia stato il capriccio di Re Vittorio Emanuele III, a cui fu chiesto di arbitrare tra le altre nazioni che si spartirono i territori africani alla svolta del ventesimo secolo.
Questa intrusione per mano italiana nella definizione del mio paese, è una delle ragioni per cui il romanzo non può essere rappresentativo della vera storia nazionale e del destino dello Zambia. Ha episodi in India, Inghilterra, Italia, una piccola parte in Malawi, un po’ in Zimbabwe. Anche quando si tratta dello Zambia stesso, lo slogan del nostro primo presidente Kenneth Kaunda «Uno Zambia, una nazione!» non era solo retorica; era necessario prendere al laccio un insieme di popoli diversi- che parlano sette lingue principali e oltre settanta dialetti – in una sorta di unità.
Nel mio romanzo, volevo minare la nozione di letteratura nazionale. Mi interessa sovvertire le aspettative comuni circa la letteratura africana, una delle quali è che la si possa usare come una guida turistica o un testo di storia. Capelli, lacrime e zanzare non è un ritratto «responsabile» del mio paese nel senso classico di fornitore di fatti storici e dati culturali. È un romanzo.

Verso la fine, si interroga sul ruolo della fantascienza e pare suggerirla come genere di rappresentazione del grande romanzo africano, è questa la sua intenzione? Quali sono stati i suoi modelli letterari e chi sono i suoi autori preferiti?
Sono stata una grande lettrice di fantascienza quando ero una teenager – La trilogia The Tripods di John Christopher è stata la prima che ho letto in questo genere; ho anche divorato i libri di Ray Bradbury, Margaret Atwood e Michael Crichton. Attualmente insegno fantascienza black e la «biofiction» di Octavia Butler è stata per me di grande ispirazione. La fantascienza è comparsa per lungo tempo nella diaspora in varie forme, dall’antica ma tecnologicamente avanzata civilizzazione africana in Of One Blood di Pauline Hopkins alla scrittura contemporanea di Lesley Nneka Arimah. Quando ho iniziato questo romanzo, ero innamorata del realismo magico – Gabriel García Márquez, Italo Calvino, Salman Rushdie, Wole Soyinka. La scuola di specializzazione mi ha immersa in testi canonici come Cuore di Tenebra, Lycidas, e Moby-Dick, che appaiono tutti in piccoli camei in Capelli, lacrime e zanzare.
I corsi che ho seguito e insegnato, mi hanno esposto anche alle revisioni femministe di fiabe di Jeanette Winterson e Angela Carter, alla narrativa marxista radicale di Ngugi wa Thiong’o e a opere di spionaggio come La spia che venne dal freddo, di John le Carré.
Capelli, lacrime e zanzare, fin dall’inizio, mescola questi diversi generi. Negli anni sono emersi altri modelli che mi hanno portato a giustapporre generi diversi all’interno di uno stesso romanzo, come Espiazione di Ian McEwan, L’atlante delle nuvole di David Mitchell e Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan. Per molti versi, Capelli, lacrime e zanzare si pone in esplicita conversazione con Denti bianchi di Zadie Smith, che è il tipo di ibridità culturale che volevo esplorare a Lusaka e gioca anche con l’ibridità di genere – dalla storia di guerra alla storia di immigrazione alla fantascienza e ad elementi di protesta politica al suo climax.