L’opera è apparentemente molto semplice. Una scultura in legno nero di Budda del diciottesimo secolo è posta di fronte a un televisore dal tipico design arrotondato degli anni settanta. A fare da trait-d’union tra essi c’è una telecamera a circuito chiuso che imprime al tutto un movimento a spirale: essa infatti osserva il Budda che osserva la propria immagine nel televisore. L’opera diviene allora reale e virtuale al contempo, immagine diretta e riflessa, che vede nel momento in cui è vista. Qui si mette in loop spiritualità e tecnica, trascendenza e aura mediatica, opera e riproduzione tecnologica. Ma anche Oriente e Occidente, che è in fondo una delle cifre più significative del lavoro di Nam June Paik (Seoul, 1932 – Miami Beach, 2006). La Tate Modern di Londra, fino al 9 febbraio, dedica un’importante retrospettiva all’artista coreano e non è un caso che ponga la appena descritta TV Buddha del 1974 come prima opera del percorso espositivo.
A differenza delle sue svariate performance e video sperimentali, perlopiú caotici e brillanti – sia in termini cromatici che sonori -–, in quest’icastica e sobria opera Paik introduce il silenzio. John Cage definisce TV Buddha l’opera più musicale dell’artista, proprio perché l’unico elemento sonoro è quello che la circonda. Sarà l’autore sperimentale americano, incontrato ai tempi dell’apprendistato in Germania alla fine degli anni cinquanta, a liberare Paik dalla composizione musicale convenzionale, dandogli così «licenza di uccidere», e ad avvicinarlo allo spirito del buddismo.
L’elemento zen non è nuovo alla sua opera, ma questo non deve far credere che Paik ne sia indottrinato (si ricordi la performance Zen for Head del 1962 in cui in un happening fluxus imbeve nell’inchiostro la sua testa come un pennello, tracciando il segno su un lungo rotolo di foglio steso a terra). Consapevole che il buddismo studiato da Cage è quello di Daisetsu Suzuki dall’ambigua relazione con il nazionalismo giapponese, alla domanda se sia un buddista zen, lui risponde di essere un artista e basta. «Molti mi vedono come un monaco zen perché sono amico di John Cage. Non sono un seguace zen, ma reagisco allo zen allo stesso modo in cui reagisco a Johann Sebastian Bach».
Quando nel 1977 lo Stedeliijk Museum di Amsterdam acquista TV Buddha, il direttore Edy de Wilde vuole sincerarsi che non saranno fatte altre opere analoghe. Il vulcanico Paik lo rassicura dicendo di avere già troppe idee in testa e di non aver tempo per replicarla. Come bene osserva Leontine Coelewij in catalogo, quest’opera non solo è quella che ha subito più varianti tra gli anni settanta e ottanta, ma è anche divenuta un segno distintivo di tutta la sua produzione di videoartista. Con eguale schema, infatti, si ripresenta più volte il dispositivo composto di telecamera, televisore e oggetti inanimati o animati (come uova, candele o performance) e il circuito chiuso (pensato sia in piccolo che in grande, ovvero su scala satellitare).
Valentina Ravaglia, assistente curatrice della Tate Modern, ci mostra come la carriera di videoartista gli si apra alla fine degli anni sessanta, quando riceve una borsa di studio come artista in residenza alla Boston’s public television station WGBH-TV. Qui ha la possibilità di sviluppare un progetto di videoarte per la televisione. Nel 1977 viene il tempo per Paik di mostrare la propria opera attraverso la TV satellitare in occasione di Documenta 6, presentando non solo videosculture ma anche performance. Negli anni ottanta Paik produce due importanti broadcast satellitari. Nel 1984, allo scoccare del fatidico anno del romanzo orwelliano, l’artista realizza Good morning, Mr Orwell, un videomontaggio con interventi live contestuali negli studi WNET-TV di New York e nel Centre Pompidou di Parigi, con sovrapposizioni di performance di Cage e di Beuys, giustapposizioni di musica pop e interventi di Allen Ginsberg tra altri.
Tutto questo, forse, per osservare nel presente il futuro distopico preconizzato da Orwell, nella consapevolezza che le telecomunicazioni sono usate come strumenti di manipolazione, mistificazione, sorveglianza, oppressione e distrazione. Come Paik dirà qualche anno più tardi, «la High-Tech non è una panacea. È solo un anestetico local». Allo stesso tempo il progetto Bye Bye Kipling, altro broadcast satellitare, cerca di capovolgere l’assunto dello scrittore britannico quando in un verso scrive dell’impossibilità per l’Oriente e l’Occidente di incontrarsi: «East is East, and West is West, and never the twain shall meet». Allora nelle molteplici combinazioni video, Lou Reed incontra il teatro giapponese Kabuki, Keith Haring il fashion designer Issey Miyake e Philip Glass la maratona di Seoul.
In tutte queste realizzazioni, i guasti tecnici, le interruzioni di segnale o gli eventi occasionali di disturbo sono i benvenuti. Paik, in virtù della sua lunga esperienza di happening e performance dall’anima veracemente anarchica, lascia molto fare al caso, incidendo con distorsioni, contaminazioni, accostando elementi allotri, e rivela l’imperfezione del medium differenziandosi da altri importanti videoartisti come Bill Viola, che ad esempio sviluppa le migliori potenzialità video per avere effetti di natura spirituale o di interazione ambientale.
A segnare profondamente tutta la parabola creativa di Paik è la collaborazione con altri artisti di cui ammira etica e azioni radicali. Oltre a John Cage, spiccano i nomi di Joseph Beuys, conosciuto prima di divenire la superstar degli anni settanta-ottanta, e di Charlotte Moorman, con cui condivide l’esigenza di superare la musica convenzionale. Beuys vede la prima esibizione del coreano a Düsseldorf nel 1959. A cementare il loro sodalizio artistico è il tema della ritualità e dello sciamanismo, che sottrae terreno al discorso occidentalizzante sulla storia dell’arte. Nelle loro performance, pur occupando lo stesso spazio, non sviluppano un concetto o una partitura condivisa. Ogni loro «concerto» è stato un evento unico e incomprensibile, dove ciascuno ignora ciò che l’altro sta per fare.
Ad esempio Coyote III del 1984 presenta due pianoforti a coda sul palco e vede Paik suonare frammenti di composizioni classiche e pop mentre Beuys emette vocalizzi bestiali e scarabocchia su una lavagna senza suonare il suo pianoforte. Beuys alla fine diviene un attivista politico, e la sua arte performativa un atto pubblico di parola per diffondere le proprie teorie; mentre Paik crea un universo idiosincratico, spesso sfuggente, fatto di linguaggi mescolati, che infine nel contesto delle nuove tecnologie trova la sua cornice e il suo volano.
In un tardo scritto Paik afferma: «Scommetto che ci sono ancora molte nuove aperture nella storia dell’arte, ignorate da milioni di giovani che si lamentano che tutto sia già stato fatto, che non si possano fare nuove scoperte. Tuttavia la Storia ci insegna che non vinciamo le partite, cambiamo solo le regole del gioco». E di continui giochi dalle stravolte regole sono fatte le performance di Paik con la violoncellista Charlotte Moorman. Caratterizzata da spettacoli caotici, viscerali, rumorosi e audaci, la loro quasi trentennale collaborazione suscita clamore ovunque. La prima apparizione importante è un concerto a Filadelfia nel 1964. Lì Moorman suona diligentemente le liquide note di Saint-Saëns, e poi, liberatasi del violoncello, sale una scala per raggiungere la cima di due barili sovrapposti. Nessuno sa che sono colmi d’acqua, ed ella vi si immerge, come nelle note musicali: fisicamente, tecnicamente, moralmente.