Suheila ieri si è svegliata alle prime luci del giorno, ha pregato, ha bevuto un tè caldo ed è andata al cimitero non lontano dal campo profughi di Deheishe. «Sono passati dieci anni da quando è morto mio marito – racconta la donna con un filo di voce, chiedendoci di non rivelare la sua piena identità -, è spirato nella notte tra il 14 e 15 maggio, nell’anniversario della Nakba. Se ne è andato proprio nel giorno che più di ogni altro dell’anno lo amareggiava, che più gli ricordava la sua condizione. Per me questo giorno è doppiamente triste, per la perdita di mio marito e per la nostra catastrofe nazionale». Suheila come tanti palestinesi, ha una buona parte della famiglia nei campi profughi, in Palestina e in Giordania. Anche per i suoi parenti in esilio quello di ieri è stato un giorno molto diverso dagli altri, un giorno in cui si piange e si sogna una vita lontano dai campi per rifugiati, nella terra d’origine, nel vecchio villaggio che ora non c’è più e al quale, comunque, non è possibile tornare. Una risoluzione dell’Onu sancisce il “diritto al ritorno” per i profughi palestinesi. Israele si oppone e fa valere la sua forza, 66 anni dopo il 1948.

Gli anniversari della Nakba non sono mai rituali per i palestinesi, ovunque essi siano. Perchè troppo spesso sono bagnati dal sangue di giovani che della Catastrofe conoscono solo le conseguenze, che vivono ogni giorno sulla loro pelle. A maggior ragione se le commemorazioni si accompagnano ad altre iniziative di lotta. Come per la scarcerazione dei detenuti politici palestinesi. Ieri Muhammad Abu al-Thahir, 22 anni, e Nadim Nuwarah, 17 anni, sono stati colpiti al torace dai proiettili esplosi dai soldati israeliani davanti al carcere di Ofer, vicino Ramallah, mentre manifestavano a sostegno dei prigionieri in sciopero della fame contro la “detenzione amministrativa”. Sono entrambi spirati in ospedale. Una notizia che ha generato rabbia e commozione tra le migliaia di palestinesi che manifestavano in quelle stesse ore in Cisgiordania, Gaza, in Galilea e a Gerusalemme Est. E che ha contribuito a rendere più teso il clima.

A Hebron almeno 11 giovani sono rimasti feriti in scontri con i militari. A Walaje, tra Gerusalemme e Betlemme, cinque manifestanti sono stati arrestati durante la giornata di mobilitazione organizzata dalla ong Badil e da varie associazioni palestinesi, interrotta dall’intervento delle forze armate israeliane. I militari hanno disperso i manifestanti con il lancio di lacrimogeni e hanno abbattuto la tenda nella quale era stata allestita una mostra fotografica. I raduni e le manifestazioni di ieri, per la prima volta dal 2007, hanno visto i movimenti Fatah e Hamas sfilare insieme in molte località, grazie all’accordo di “riconciliazione” tra le due forze politiche “nemiche” fino a qualche settimana fa. Quest’anno perciò le bandiere di partito hanno fatto posto a quella palestinese e alle kufieh appoggiate sulle spalle dei manifestanti di ogni colore politico.

«E’ tempo di mettere fine alla più lunga occupazione nella storia ed è tempo per i leader di Israele di comprendere che i palestinesi non hanno altra casa che la Palestina», aveva detto il presidente dell’Anp Abu Mazen mercoledì sera in un discorso alla vigilia dell’anniversario della Nakba. Il negoziatore capo palestinese Saeb Erekat da parte sua, in un intervento scritto per il quotidiano Haaretz, ha avvertito che Israele «non può cancellare dalla storia la Nakba e l’esilio forzato di oltre 750.000 palestinesi nel 1948». Parole che hanno suscitato la pronta replica del premier israeliano Netanyahu. La risposta alla memoria palestinese della Nakba è l’approvazione di una legge fondamentale che definisca Israele come Stato ebraico, ha detto Netanyahu. «Israele continuerà a costruire e sviluppare il paese, compresa Gerusalemme», ha aggiunto il primo ministro in evidente riferimento all’espansione delle colonie israeliane dei Territori occupati.