Si chiama kapuka. È un genere musicale che fonde rap, dance-pop, reggae e atmosfere africane. Un collage afrocaraibico derivato dal reggaetón, dalla dancehall e dall’hip hop. È la musica più popolare nelle radio e per le strade di Nairobi e che unisce una città piena di contrasti in cui il divario tra ricchezza e povertà è colossale. «È la mia musica preferita, quella che ascoltavo da piccolo», a parlare è Idris Abdul, vent’anni, un ciuffo di capelli rasta corti e l’aspetto di uno che sa quello che vuole. È originario di Kibera il più grande slum africano, un quartiere cresciuto a dismisura nella parte meridionale della capitale del Kenya che ospita secondo alcune stime più di mezzo milione di abitanti. A Nairobi quasi tre quarti della popolazione, due milioni e mezzo di persone, vive in slum dislocati in diverse aree del territorio. Nel gergo ufficiale si chiamano «insediamenti informali», occupano un ottavo dell’estensione cittadina e sono delle città nella città. Solo il 6% delle case ha l’acqua corrente, la metà è sprovvista di servizi, non esiste lo smaltimento dei rifiuti e la mortalità infantile è di trenta volte superiore a quella europea.

Idris è un ex bambino di strada. Un ex «chokora» come vengono chiamati qui, un termine dispregiativo che in swahili allude alla spazzatura e all’abitudine di frugare tra i rifiuti in cerca di cibo. Nessuno li ha censiti, ma a Nairobi sono migliaia e sopravvivono per le strade delle bidonville radunandosi in bande. Sono bambini che non hanno una famiglia, non conoscono un’infanzia, vivono alla giornata e per resistere alla fame e agli stenti sniffano colla o benzina avio comprata clandestinamente, da bottiglie di plastica a cui si aggrappano come neonati ai biberon. Ma per Idris questo è il passato. A nove anni è entrato nella comunità Ndugu Mdogo («piccolo fratello»), fondata dalla Ong Koinonia, e ha potuto frequentare la scuola e raggiungere il diploma. Si è lasciato alle spalle la vita di strada, ma non ha dimenticato la colonna sonora che l’accompagnava: «Ascoltavo musica anche quando vivevo per la strada e già nei primi anni di scuola mi divertivo con i miei amici a incidere delle cassette di musica. Ho capito che la musica poteva essere la mia vita quando frequentavo le scuole superiori. Ho iniziato a cantare musica tradizionale, a esibirmi come ballerino, è lì che ho capito che mi sarebbe piaciuto fare molto di più. Appena finito di studiare ho cercato di procurarmi del materiale per fare delle registrazioni». Oggi cita come suoi artisti preferiti i nomi di punta della scena locale di kapuka, Rapdamu NaiBoi e Kenrazy, ha cominciato a collaborare con un’etichetta hip hop locale, la Grandpa Records, e spera di iniziare a fare sul serio.

UN PICCOLO STUDIO

Con altri giovani, alcuni dal passato difficile come il suo, è uno degli animatori di un piccolo studio musicale nato, in parte grazie ai fondi per la cooperazione del Ministero degli Affari Esteri italiano, all’interno di un’altra comunità della Ong Koinonia, il Kivuli Center in un quartiere popolare a ovest della città, Dagoretti. Nello studio di registrazione si incontrano i sogni di diversi ragazzi che vedono nella musica la realizzazione delle loro aspirazioni. Charles, viene dal Sud Sudan, è arrivato in Kenya nel 2011 per studiare, ma mentre era lontano da casa i Nuer, la sua tribù di origine, sono entrati in conflitto con l’etnia Dinka del presidente dello stato, Salva Kiir Mayardit, e sono stati oggetto di una pulizia etnica, come l’ha definita l’Onu. Da studente è diventato profugo. «Non so dove sia la mia famiglia – dice -, non ho notizie di loro, spero che stiano bene e di poterli incontrare presto. La musica è la mia grande passione. Mi piace un artista come Emmanuel Jal, un ex bambino soldato sudanese che in canzoni come Warchild racconta la sua vita, di come non volesse uccidere ed è scappato dalla guerra. Ha attraversato il deserto per rifugiarsi in Kenya. La sua vita oggi è diventata la sua musica». «Credo di essere sopravvissuto per raccontare la mia storia», recita il testo della canzone di Jal che oggi vive in Canada e ha pubblicato sei album. Anche Charles è un aspirante rapper, ha scelto come nickname Sober Boy, ma sa che sarà difficile sfondare e ha un piano B: «Vorrei ispirare con la mia voce il mondo, ma se non dovessi riuscire nella musica mi piacerebbe aprire una mia attività».

Michael Barnabe vuole essere chiamato con il suo nome da rapper, Mc Barr, conduce un programma di reggae nella radio di quartiere che trasmette dalla comunità di Kivuli: «Ogni volta che ho un’idea, la scrivo e prendo nota. Voglio parlare della gente di qui, delle loro storie. Penso che dobbiamo trovare una nostra strada, un nostro stile. Non imitare sempre artisti jamaicani o americani». Mopel, un altro ragazzo del gruppo, ha passato i vent’anni. Sta per diventare padre ed è un Masai, ma parla inglese con un marcato accento giamaicano da cui è stato contagiato ascoltando reggae e dancehall. Ha lasciato il suo villaggio tribale per la città, ha vissuto in una comunità per adolescenti, che ha chiuso perché, racconta, i gestori si intascavano tutti i soldi che ricevevano e li spendevano per fare la bella vita. È tornato sulla strada, è stato rinnegato dalla sua tribù perché non ne ha rispettato le tradizioni e ora ama il freestyle e vuole sfondare a tutti costi come interprete rap. «Nessun Masai ha mai intrapreso la mia strada – dice -, ma oggi la mia comunità mi ha accettato e sono diventati miei fan. Voglio diventare il migliore in quello che faccio, non mi importa quanto ci metterò».

Kingston è dall’altra parte del mondo, ma per il ragazzo Masai è parte del suo orizzonte. Chissà se è questo a cui pensava Bob Marley quando parlava di pan-africanismo. La fascinazione del paese per il reggae non è recente e ha un curioso retaggio post-coloniale. Il genere musicale arrivò infatti in Kenya grazie ai padri fondatori come Marley, i Wailers e Don Carlos. Erano tutti artisti neri caraibici, ma venivano trasmessi dalla Kbc, il ramo locale dell’inglese Bbc e incidevano per etichette britanniche.

STRANI INCROCI

Ma a Nairobi gli incroci culturali e musicali sono imprevedibili. Nello studio di Kivuli con questi ragazzi sta lavorando un artista italiano, Francesco Medda, compositore elettronico e live performer di Quartu Sant’Elena, che produce musica con il nome d’arte Arrogalla. È qui per realizzare la parte musicale di un progetto di cooperazione culturale curato da due associazioni italiane la Onlus sarda Cherimus e l’associazione Amani che ha sede a Milano. «Stiamo realizzando un lavoro collettivo chiamato “Ciak! Kibera” – spiega – e che avrà come esito un cortometraggio, un videoclip e una colonna sonora realizzata con un gruppo di ragazzi, molti dei quali provenienti da slum e con un passato sulla strada».

La storia personale è diversa, ma le basi musicali sono sorprendentemente comuni: «Abbiamo dieci anni di differenza ma il background è simile. Ci siamo formati con la cultura hip hop e le altre culture legate all’urbanità. Così come tanti miei conterranei nati negli anni Novanta, pur apprezzando il genere e la filosofia, non conoscono la storia, l’origine della cultura e i progetti, musicali e non, che sono stati determinanti e fondanti. Nelle loro produzioni mischiano hip hop, reggaeton, dancehall reggae e sonorità afro, utilizzando lingue diverse, inglese, masai, swahili e lo sheng, una nuova lingua, simile al «patwa» giamaicano che mischia inglese e swahili e che ogni anno si arricchisce di termini nuovi provenienti da altre lingue. Nella sala di registrazione di Kivuli, seppur con una strumentazione essenziale, hanno imparato molto bene la tecnica e la mettono in pratica, sia nella produzione dei beat che nei testi. Inoltre, cosa molto importante, hanno qualcosa da dire, trasformano in rime la loro realtà senza mistificazioni o imitazioni».

Per loro la musica è la prima forma di rivincita, pubblicano i loro brani su siti come Soundcloud si esibiscono a feste o eventi organizzati da scuole, comunità o associazioni e si tengono in contatto con i gruppi WhatsApp. Il progetto, loro ma anche della comunità che lo ospita, è quello di fare dello studio di Kivuli una base per artisti locali che convogli creatività e crei anche possibilità di lavoro. «Con loro – prosegue Medda -, ho avviato un percorso laboratoriale musicale tendente alla ricerca delle loro identità acustiche, attraverso, per prima cosa, la ripresa e l’analisi del loro paesaggio sonoro incredibilmente ricco e variopinto, per poi proseguire la ricerca nelle loro musiche tradizionali da poter campionare, modificare e combinare. Identità acustiche e paesaggi sonori, sonorità tradizionali campionate e “sovvertite”, urbanità e milioni di suoni e influenze differenti, questa è a mio avviso la ricetta per poter contribuire alla musica oggi, nel 2017. Non tanto seguire un genere, bensì unire nel modo più folle e fantasioso elementi musicali apparentemente distanti tra loro».

NUVOLE NERE

Nella capitale del Kenya gli spunti musicali certo non mancano. Il trasporto pubblico di fatto non esiste e i bus che viaggiano per la città sono in gran parte mezzi privati che coprono tratte predefinite. Sono chiamati «matatu», alcuni sono autobus con qualche chilometro di troppo, altri sono piccoli pullman ammaccati che emettono nuvole nere ad ogni accelerazione e altri ancora sono invece delle piccole discoteche viaggianti, mezzi decorati con sgargianti ritratti di star musicali internazionali o locali e che trasmettono per i loro passeggeri musica ad altissimo volume accompagnata anche da maxischermi. Sono diventati un vero e proprio fenomeno di cultura urbana, alcuni si identificano con artisti tradizionali, altri con cantanti pop di ispirazione religiosa (un altro genere molto amato), altri con star dancehall giamaicane. Per le strade dominano il traffico del centro e nei perenni ingorghi o ai margini degli slum le loro casse a tutto volume riempiono di musica le strade a qualsiasi ora del giorno e della notte. Qualche anno fa il governo tentò di zittirli proibendo per legge la musica sui mezzi di trasporto collettivo, ma il divieto non ha sortito effetto ed è stato dimenticato.

I rapper o gli artisti reggae istoriati sulle carrozzerie dei «matatu» però in alcuni casi assumono connotati profetici. Per quanto strano possa sembrare l’artista più popolare oggi negli slum di Nairobi è un cantante giamaicano che sta scontando l’ergastolo in un penitenziario di Kinsgston. Il suo nome è Vybz Kartel (all’anagrafe Adidja Palmer), è il re internazionale della dancehall music. Arrestato per la prima volta nel 2011 e accusato di due omicidi è stato poi assolto per un delitto, ma condannato al carcere a vita per l’assassinio di un 27enne reo di uno sgarbo. Da quando è in carcere Kartel è diventato una sorta di leggenda e, non si sa bene come, ha continuato a pubblicare durante la detenzione album a ripetizione, secondo alcuni realizzati con incisioni precedenti all’arresto, secondo altri registrati di nascosto dietro le sbarre. Tra questi King of the Dancehall, un album pluri-premiato e successo planetario. La vicenda da romanzo criminale di Vybz Kartel è diventata un riferimento per molti giovani di Nairobi. Il rapper ergastolano è l’icona di una gang di adolescenti che si chiama Gaza, esattamente come l’entourage dell’artista giamaicano, e che imperversa nel quartiere di Kayole. Ai Gaza si contrappongono i Gully Side, seguaci di Mavado, artista di Kingston acerrimo rivale di Vybz Kartel. «Giovani dagli occhi assonnati adornati di catene e anelli d’oro, con la testa coperta da enormi cappucci e con il corpo pieno di tatuaggi. Pattugliano le strade polverose e le fermate dei bus. Nascosti nei loro abiti ci sono armi letali con cui uccidono chiunque incroci i loro cammino», così li ha descritti un giornale locale non lesinando atmosfere melodrammatiche, anche se il problema è serio. La polizia sta reagendo alle gang con esecuzioni extragiudiziali come ha testimoniato un video emerso di recente in cui un agente in borghese spara a un ragazzo steso a terra. Una situazione che ricorda la Los Angeles degli anni Novanta, dove le passioni musicali diventavano appartenenza e faida di strada.

Non c’è solo divisione nella musica, i ritmi urbani possono anche diventare il linguaggio delle speranze per chi vive negli slum. Ronald Ronics è un artista grafico, un fotografo e un regista. Fa parte di un collettivo artistico chiamato Masai Mbili che tra le baracche di Kibera ha aperto una galleria d’arte. Sulla porta in lamiera si legge la scritta «Real Ghetto Stories», lo spazio è grande come un garage, ma le pareti sono piene di colorati quadri di artisti locali e l’insolito atelier è il polo di attrazione anche per la scena musicale locale. «Kibera è uno slum ma è anche una grande comunità – racconta Ronics -. Qui la gente si aiuta e si unisce. C’è il sostegno da parte di tutti». Uscito dal ghetto per studiare, Ronald ha poi deciso di tornare per perseguire la sua idea di un’arte che vuole sfidare i pregiudizi. «Kibera – prosegue – ha sviluppato una propria scena hip hop con artisti che hanno avuto anche successo internazionale come Octopizzo (diventato oggi uno dei rapper keniani più celebri, ndr), Kibera Force Crew, Moroko Kalahari, Mc Bio»; alcuni si radunano proprio presso la sede di Masai Mbili dove improvvisano esibizioni freestyle e cercano ispirazione per i propri video e i propri lavori. «I ragazzi di questo quartiere non possono permettersi di andare ai concerti dei grandi artisti – spiega il rapper Moroko Kalahari -, vogliamo portare qui la musica. Io cerco di fare poesia urbana, di raccontare questa realtà».

Nella sede di Masai Mbili il rapper ha girato il suo ultimo video Form Gani, un messaggio contro la droga e le dipendenze. Per un momento ci si dimentica delle case fatte di fango e di lamiera, delle strade-discarica in cui scorre una fogna a cielo aperto e si pensa a un quartiere di persone che lottano ogni giorno e vogliono raccontare una storia di riscatto e affermazione. Ronald Ronics con altri artisti sta lavorando anche a un progetto chiamato «Superheroes of Kibera» in cui coinvolge i bambini nella creazione di alcuni supereroi degli slum stimolandoli a creare un universo fantastico fatto di costumi e superpoteri, suoni e colori. «Siamo tutti a nostro modo superori» dice. Oltre il degrado, la povertà e l’emarginazione c’è l’orgoglio di chi lotta per sopravvivere. Sono queste le «Real Ghetto Stories», le autentiche storie del ghetto che forse solo la musica e l’arte sono in grado di raccontare.