In una delle autorevoli Reith Lectures trasmesse dalla Bbc Radio nel 1993, Edward Said sosteneva che l’intellettuale espatriato è come «un naufrago che impara a vivere con la terra anziché sulla terra»: non colonizza la sua «piccola isola» come fa Robinson Crusoe, ma abita il mondo da «viaggiatore e ospite» come Marco Polo, senza mai perdere il senso della meraviglia e la capacità di cogliere i legami tra le cose.
Non sorprende che V.S. Naipaul, scrittore di Trinidad la cui famiglia è di origine indiana, apra l’elenco degli intellettuali naufraghi stilato da Said. Di Naipaul esce ora per Adelphi Lo scrittore e il mondo (traduzione di Valeria Gattei, pp. 536, € 45,00) un corposo reportage di viaggi che abbraccia quattro continenti nei decenni immediatamente precedenti e successivi alla decolonizzazione, e disegna un’impressionante mappa del mondo plasmato dal colonialismo e dall’imperialismo.
Attraverso una prosa che coniuga la precisione giornalistica all’incedere impressionistico e tautologico della scrittura conradiana, Naipaul riporta i lettori alla fase della post-colonia in India, Caraibi, Mauritius, Zaire, Argentina, Grenada, Guyana, nella cui tormentata genealogia e nella cui scompigliata memoria linguistica e culturale rintraccia una insostituibile chiave di accesso alla realtà contemporanea.
Analogamente a Franz Fanon, la cui presenza sottotraccia si avverte dalla prima all’ultima pagina del libro, Naipaul descrive la decolonizzazione nei termini di una sospensione materiale e mentale strutturalmente irrisolta tra un passato imposto con la violenza e un futuro incerto e nebuloso, la cui realizzazione, evocata nella forma del compimento messianico, esige dai popoli liberati – disabituati a ragionare e a scegliere, mortificati nello spirito d’intraprendenza, defraudati delle risorse, delle conoscenze e dell’autostima – una successione di salti immaginativi che è quasi inconcepibile.
Il disprezzo di Hegel
Dalla sofferta ma lucida percezione di questa impasse, la cui natura è tanto politica quanto epistemologica, scaturisce lo sguardo straniato, severo, raramente empatico, proiettato dallo scrittore sui diversi contesti postcoloniali. A cominciare dall’India, amata e odiata terra dei padri, che Naipaul osserva con lo stesso disprezzo espresso da Hegel all’inizio dell’Ottocento: «la semplicità dell’India delude e, alla fine, stanca. Il pittoresco è un inganno. I barbari riti religiosi degli indù sono barbari; appartengono al mondo antico. La vacca sacra è un’assurdità. I segni di casta e i turbanti appartengono a un popolo che, incapace di considerare l’uomo come uomo, non sa definirsi in altro modo. L’India è tutta esteriorità». In questo sguardo penetrante e impietoso, forgiato dalla convinzione che «la storia dell’Occidente sia la storia di un grande successo», e che laddove i popoli non hanno voluto o potuto abbracciare le sue conquiste di civiltà si sono condannati a un destino di residualità, è racchiuso il grande fascino intellettuale e, allo stesso tempo, l’inganno di questo memoir di viaggio.
Di questo inganno anche il lettore più avveduto non arriva a rendersi conto se non alla fine del libro, allorché Naipaul identifica il valore della «civiltà universale» con l’orizzonte culturale tipicamente borghese e protestante che ruota attorno al tema della felicità. «L’idea della ricerca della felicità è il vero motivo per cui molti di coloro che stanno al di fuori o alla periferia di questa civiltà ne sono attratti. È un’idea elastica, valida per tutti. Presuppone un certo tipo di società, uno spirito illuminato di un certo tipo. Non credo che i genitori di mio padre sarebbero riusciti a comprenderla. In sé racchiude molto: l’idea di individuo, responsabilità, scelta, la vita dell’intelletto, l’idea di vocazione, perfettibilità e realizzazione. È un’idea umana immensa. Non si può ridurre a un sistema rigido; non può generare fanatismo. Comunque si sa che esiste, e in virtù di questo, alla fine, altri sistemi più austeri saranno spazzati via».
Senonché, è proprio dall’etnocentrismo perspicuo, mai ipocrita o imbarazzato, condensato nell’auspicio di un mondo libero dai tribalismi e dalla consolazione «dei riti e dei miti», e riprogettato a misura di individui laici, desideranti e dunque potenzialmente felici, che questo reportage attinge la sua straordinaria forza narrativa. Naipaul guarda ai paesi e ai popoli decolonizzati con gli occhi del romanziere ottocentesco che crede nella coincidenza tra destino e carattere e che, nelle movenze, negli abiti, negli oggetti, negli ambienti, negli idioletti dei propri personaggi, svela in trasparenza le traiettorie della storia.
Così, Mauritius, colonizzata prima con schiavi provenienti dal Madagascar e dopo con masse di migranti indiani affamati dalla coltura dell’oppio, è ridotta a un «recinto sovraffollato» di gente depressa e alcolizzata, impossibilitata a emigrare perché troppo povera e incolta. A Trinidad, il vuoto di potere lasciato dall’impero britannico è riempito dalla «trappola sentimentale» rappresentata da un Black Power violento, qualunquista e dalle forti connotazioni messianiche, che scimmiotta il più avanzato movimento statunitense: «la ricerca dell’identità nera e la condivisione della sofferenza sono un vicolo cieco, furia fine a se stessa, autoflagellazione di gente che non riesce a trovare un progetto per il domani».
Ancora, «l’Argentina è una società materialista coloniale creata nella fase più rapace e decadente dell’imperialismo. Ha svilito e inebetito gli uomini che ha attirato con la promessa del benessere, e a cui non ha offerto altri ideali, né una nuova idea di comunità». Lo Zaire soffocato dalla dittatura di Mobutu è un cuore di tenebra analogo a quello attraversato da Conrad durante la risalita del fiume Congo nel 1890. Nel 1975, quando ci arriva Naipaul, i battelli sono dotati di cabine di lusso per turisti; cionondimento, rimangono «battelli africani gestiti alla maniera africana», non soltanto mezzi di locomozione ma «mercati ambulanti» che gli occhi occidentali trasfigurano in un’esotica fiera degli orrori: «Al mattino arrivano altre piroghe con merce fresca: catini di lumache nella terra nera e umida, pesce fresco e scimmie – affumicate, boucanés, piccole carcasse bruciacchiate, o appena uccise: scimmie grigie o rosse, con la coda scuoiata e la pelle legata intorno al collo; scimmie a mucchi, sollevate per la coda dalle piroghe, sacchi e valigie di scimmie morte. L’entusiasmo è al culmine. La scimmia è una prelibatezza africana, e una scimmia che a Kinshasa costa sei zaire, dodici dollari, sul fiume si può comprare a tre». Sembra un passo di Heart of Darkness, con le scimmie scuoiate messe al posto della carne di rinoceronte marcita, della quale si nutrono i mostruosi e innocui cannibali del bush che conducono Marlow da Kurtz.
Il non-esotismo di Conrad
Nelle ultime pagine del reportage Naipaul dipinge Conrad come uno scrittore «desideroso di restituire con esattezza ciò che vedeva nei suoi viaggi», che, «in pieno imperialismo, riuscì ad andare oltre la rappresentazione dell’Oriente e dei suoi popoli tipica degli scrittori imperialisti». Per chi vede nell’arte di Conrad il culmine di quell’esotismo decadente che, secondo Said, ha fornito un «accompagnamento polifonico all’impero», l’affermazione di Naipaul rasenta l’eresia. Eppure Said ammirava sia Conrad sia Naipaul, giacché riteneva che, per i grandi scrittori, suscitare lealmente il dissenso fosse altrettanto vitale dell’avere ragione.